Ancora poche settimane, poi la panchina della Roma potrebbe accogliere l’ottavo allenatore in meno di otto anni. Un destino quasi inevitabile ormai, annunciato o quasi da Spalletti, confermato da qualche sussurro dei dirigenti e sottoscritto da Pallotta. Due papi, quattro sindaci e otto tecnici giallorossi, prova che a Roma è più logorante allenare una squadra che guidare la città. Quindici mesi fa Rudi Garcia se ne andava quasi in lacrime dopo un esonero figlio dei risultati e un’opera di demolizione accuratissima: le accuse di essersi “romanizzato”, il massacro per la love story con una conduttrice di RomaTv. Oggi è il turno di Spalletti, immolato sull’altare non di Totti (con cui non parla da settimane) ma del “tottismo”. Minacce personali, insulti ai figli, striscioni sotto casa. Uno lo ha attaccato lo stesso Spalletti: «Marito e moglie avevano una scritta contro di me, li ho aiutati a srotolarla». A parole tifosi della Roma, nei fatti antagonisti della propria passione, che brucia soprattutto per guastare ogni trama ordita a Trigoria.
Una guerra quotidiana, estenuante per un allenatore: «Si parla sempre di questa cosa qua e ce l’ho addosso». È incredulo quando anziché commentare la vittoria per 4-1 sul Milan, il poker di vittorie con le milanesi 62 anni dopo l’ultima volta, deve vestirsi da avvocato per difendersi dall’accusa della passerella negata: «Perché non hai fatto entrare Totti?». Inevitabile esploda: «Tornassi indietro non verrei alla Roma». È un addio quasi retroattivo, persino Pallotta al Messaggero pare annunciarlo: «Non potrei biasimarlo se decidesse di andarsene». Lo fece già Ranieri, passato in sei mesi da Imperatore a “minestraro”, molto prima che il mondo lo incoronasse dopo il successo impossibile con il Leicester. I ciuffi grigi nella propria chioma, Luis Enrique li ha coltivati a Roma, prima di fuggire stravolto prendendosi un anno sabbatico. Tre stagioni più tardi lo ritrovarono sulla vetta d’Europa che spediva ai romani saluti al vetriolo. Il venticello romano ha travolto pure il profeta Zeman, a cui il salvagente Totti non è bastato per evitare il naufragio, quando s’azzardò a criticare l’altra bandiera De Rossi. Come il boemo (e Liedholm e Foni), pure Spalletti aveva accettato di tornare nella città da cui fuggì stremato nel 2009. Il prossimo a muovere passi di ritorno può essere Montella (il Milan avrebbe già avuto un colloquio con Mancini).
L’allenatore romanista ha provato quasi a lasciarlo intendere a San Siro, abbracciandosi l’attaccante che aveva allenato a Roma e che oggi potrebbe prendersi la sua panchina, insieme alla gestione del “dopo” Totti: «Ora viene Montella e lo sa lui come fare». Certo per Vincenzo sarebbe più facile provare a immaginare una convivenza con un direttore tecnico come Totti. Ieri mentre l’onda della passerella negata a San Siro invadeva la modulazione di frequenza romana, Francesco sembrava orientato a dire la sua, organizzando una conferenza stampa prima di Roma-Juventus di domenica. Probabilmente desisterà, in attesa di discutere con il club i risvolti sull’occupazione futura (ieri il dg Baldissoni, incaricato di seguire la questione, era a Milano). Nel frattempo è sceso in campo l’esercito di vassalli non richiesti, per alimentare il vociare che accusa Spalletti di oltraggio. Nessuno di loro pare ricordarsi che mancano cinque giorni appena a una partita che può decidere il finale da dare a questa stagione e forse il copione delle prossime. Un romanista d’acciaio come Andreotti disse una volta: il potere logora chi non ce l’ha. Curioso che per la panchina della sua squadra del cuore valga l’esatto contrario.