Trecentocinquantacinque giorni fa, alla vigilia della gara d’andata degli ottavi della scorsa edizione della Champions League, Eusebio Di Francesco e Daniele De Rossi si presentarono in sala stampa – nel gelo di Charkiv, Ucraina, dove la sera dopo i giallorossi avrebbero affrontato i temibili arancioni dello Shakhtar Donetsk – e seppero incarnare alla perfezione il carattere del romanista al cospetto del sogno. «Io non sono al cento per cento – disse il capitano, che era rientrato solo pochi giorni prima da un’assenza che era costata diversi punti in campionato alla Roma – ma la squadra sta crescendo. Non vedo perché dobbiamo pensare ad una stagione come se fosse già sbiadita».
E Di Francesco: «Abbiamo lavorato duramente, vedrete che ci aspetta un gran finale di stagione. Con loro non abbiamo una grande tradizione, non so se giocherò col 433 o col 4231 ma magari li alternerò anche nel corso della partita, l’importante è dare continuità di risultati». Incredibile, no? Prendete quelle stesse frasi e riportatele a oggi, sono praticamente su carta carbone. Passa il tempo ma noi no, canterebbe Mannoia. La Roma è sempre uguale a se stessa, sempre sull’orlo del baratro e poi pronta a ritirarsi su, magari poggiandosi un po’ su De Rossi e un po’ su Di Francesco, due belle facce della stessa medaglia. (…)
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