Quando Rüdiger arriva nella saletta del Media Center di Trigoria dove svolgeremo l’intervista sembra andare di fretta. È meno alto di quanto mi immaginassi – sì, insomma, diciamo che non è un gigante – ma quando mi stringe la mano sento che è fatto di una consistenza diversa dalla mia. Rüdiger capisce l’italiano, lo sa anche parlare discretamente, ma con la stampa parla inglese.
La madre viene dalla Sierra Leone, fuggita all’inizio degli anni ’90 a causa della guerra civile, dove la lingua ufficiale de facto, quella parlata da televisioni, scuole e uffici, è l’inglese. Lui dice: “A casa parliamo our language”, cioè un inglese con un forte accento locale. Nelle interviste preferisce non rischiare l’italiano per non essere frainteso.
Un angolo di paradiso – Rüdiger è cresciuto a Neukölln, quartiere nella periferia meridionale di Berlino – reso celebre da una canzone di David Bowie – con la più alta percentuale di persone di origine non tedesca. «Per me era un angolo di paradiso» dice subito su Neukölln. «Perché non sono cresciuto nel razzismo o cose del genere. Avevo amici arabi e di tutte le culture e i Paesi del mondo. Non ho mai avuto problemi, stavamo insieme come una famiglia. A me piaceva vivere lì». Poi aggiunge: «Certo, adesso non vorrei che i miei figli crescessero come sono cresciuto io…».
Il calcio in questo tipo di storie offre sempre una protezione, una strada – più sicura di altre – da seguire. Al limite, anche solo una distrazione: «Ci sono persone che hanno preso altre vie. Non voglio dire che se non fossi diventato calciatore sarei diventato un criminale, non posso saperlo, ma il calcio mi ha dato una buona direzione».
Da una parte si capisce che non vuole parlare male di un posto che per lui vale molto – una volta ha dichiarato che Neukölln “gli scorre dentro” – ma dall’altra vuole sottolineare l’importanza che ha avuto nel suo percorso di affermazione personale: «Mi è rimasta quella mentalità: never give up. Devi combattere per trovare la tua via d’uscita. Perché se molli sei come un gatto davanti a un leone».
Rüdiger guarda al suo passato con una sicurezza stupefacente, come se non avesse fatto altro che seguire una strada scontata. E invece ha dovuto prendere delle scelte contro-intuitive. Dopo aver passato l’infanzia calcistica a Berlino (VfB Sperber Neukölln e Hertha Zehlendorf), si trasferisce nelle giovanili del Borussia Dortmund, dove rimane tre anni; poi, nel 2011, quando a 18 anni sarebbe teoricamente pronto per fare il salto in prima squadra, si trasferisce allo Stoccarda. «Se guardi le statistiche, da quando Mario Götze è salito in prima squadra dalle giovanili, ci sono stati solo altri due giocatori che hanno fatto lo stesso salto. Se invece guardo il mio percorso con lo Stoccarda, ho giocato più di 80 partite [con la prima squadra, ndr]. Quindi credo di aver fatto la scelta giusta».
La statistica citata da Rüdiger è esatta – i due giocatori di cui parla sono Christian Pulisic e Felix Passlack – e la sua scelta acquista valore anche alla luce della recente policy del Borussia di acquistare i migliori talenti in giro per l’Europa.
L’eredità della strada – Sembra che il fatto di essere cresciuto letteralmente per le strade di Berlino abbia plasmato in lui un’idea di calcio estremamente fisica, in cui il contatto ha un ruolo determinante: «Non ci sono regole per strada: giochi, ti fanno fallo, ti rialzi». Con un sorriso che comunica un certo orgoglio proletario, aggiunge: «Magari sono i giocatori normali che non possono giocare per strada, perché la palla non rimbalza regolarmente, o perché l’asfalto non è morbido come l’erba…».
D’altra parte, però, come tutti quei difensori moderni che dominano i loro avversari grazie a delle straordinarie doti atletiche, anche Rüdiger si è scontrato con i limiti di un gioco troppo fisico. Mi sarei aspettato che tra i colleghi che lo hanno messo più in difficoltà in questa stagione citasse giocatori potenti in progressione come Keita o Ocampos, invece l’avversario peggiore da affrontare in stagione per lui è stato Lorenzo Insigne.
«È un giocatore molto intelligente», dice. «Conosce la mia fisicità e sa che non ha nessuna speranza se si allunga la palla. Per questo ha giocato quasi sempre a un tocco contro di me: non riuscivo a prenderlo. Toccava il pallone solo una volta e poi se ne andava dalla mia zona». E ripete: «Non riuscivo a prenderlo».
Per usare la sua stessa immagine, Rüdiger parla di Insigne come di un gatto capace di sfuggire al leone. «Il fatto è che lui ha un baricentro basso e quindi è più stabile di me. Io sono molto atletico e veloce, ma se lui si sposta lateralmente, I’m dead». Per essere sicuro di spiegarsi a fondo utilizza un’altra immagine: «Lui non è il mio specchio, capisci cosa intendo?».
Mi sembra di capire che per Rüdiger la difficoltà sia affrontare giocatori che non sono come lui, per questo gli chiedo cosa ha provato quando ha affrontato Lionel Messi, l’anno scorso in Champions League. La sua prima risposta è: «Crazy»; poi aggiunge, sorprendentemente in italiano, ma abbastanza efficacemente: «Un altro livello».
Provo a ribaltare il punto di vista iniziale chiedendogli se allora preferisce giocatori più diretti, che portano molto palla in corsa. Mi ripropone l’idea dello specchio: «No, preferisco giocatori come Mario Mandzukic, che è della mia altezza».
Più avanti gli faccio vedere proprio l’incredibile intercetto effettuato contro Mandzukic, nel primo tempo dell’ultimo Roma-Juventus, lui mi risponde: «Ogni volta che riceveva il pallone provava a giocare di prima verso il centro. L’aveva già fatto un paio di volte e a quel punto ero sicuro che l’avrebbe fatto ancora, perché non è quel tipo di giocatore a cui piace dribblare».
Insomma, la fisicità è importante ma c’è anche un aspetto cerebrale nel gioco di Rüdiger: sapere a cosa si va incontro è la leva con cui alzare – o abbassare – l’intensità mentale sulla partita.
Senza un’incertezza – Mark Twain diceva che non è ciò che non sai a crearti problemi, ma ciò che pensi di sapere per certo. Questo sembra essere particolarmente vero per Rüdiger, che a volte pecca di eccessiva sicurezza. Durante i sanguinosi derby di aprile, che sono costati alla Roma una fetta di questa stagione, il centrale tedesco ha penato contro Keita e Felipe Anderson. Gli faccio vedere un tunnel subìto da Felipe Anderson, facendogli notare che forse l’aveva affrontato in maniera troppo diretta: «Non posso farci niente: sono grosso, sono alto. Ho fatto la prima mossa e lui mi ha fatto un tunnel».
Ma allora la questione diventa: se l’energia, l’aggressività, possano trasformarsi in limiti, possiamo dire che l’esitazione, il dubbio, l’attesa contribuirebbero ad arricchire il suo gioco?
«In tutte le cose devi trovare la via di mezzo», dice. «Forse in alcune partite sono uscito dalla posizione troppo in fretta. Qualche volta sono troppo aggressivo, altre volte magari aspetto troppo: devi sempre trovare la via di mezzo. Sono ancora giovane e devo ancora migliorarmi in tutto. Verrà con le partite».
C’è ancora una sicurezza estrema nel suo tono di voce: non viene mai messa in dubbio l’eventualità del suo miglioramento, è solo questione di tempo. Anche in questo caso, guardando il suo percorso in Italia, è difficile dargli torto. Dopo un inizio difficile, in cui alcuni lo avevano giudicato non all’altezza del contesto per via di qualche errore grave, si è affermato come uno dei difensori di maggiore potenziale della Serie A. E in mezzo c’è stato anche un grave infortunio.
Parlando del suo percorso recente, Rüdiger mi fa notare che da quando è arrivato in Italia non ha ancora mai fatto la preparazione estiva con la squadra, sempre per problemi fisici (il primo anno stava recuperando da un problema al menisco; quest’anno per la rottura dei legamenti crociati). «Le persone dimenticano che in questa stagione sono tornato da un infortunio molto grave», mi dice. «Non ho giocato per quattro mesi e poi ho ricominciato direttamente a giocare da titolare: fino ad oggi ho fatto più di 35 partite, è normale avere dei cali. Ma onestamente penso di essere stato costante in questa stagione. La scorsa stagione, sono stato più incostante: una o due partite buone, una cattiva. Ma questa stagione penso di essere stato costante».
Il suo recupero è stato uno dei più veloci ed efficienti, considerando la gravità dell’infortunio. Lui stesso se ne stupisce: «A volte ci ripenso e dico che è stata una follia, che non è normale essere tornato così velocemente e così in forma. Quando sono rientrato in campo mi dicevano che era come se non mi fossi mai infortunato. Ma poi c’è stato un momento, dopo una decina di partite, in cui mi sentivo un po’ stanco. Ma è lì che interviene la testa. Avevo le idee chiare e questo credo sia il motivo per cui ho fatto un buon rientro».
Oggi, dopo nemmeno due anni in Italia, nelle gerarchie dei tifosi romanisti sembra persino aver scavalcato Manolas. «Penso di essere migliorato. Quando sono passato dalla Germania all’Italia è cambiato tutto, due Paesi diversi, due tipi di calcio diversi. Devi adattarti e ci vuole del tempo: alcuni giocatori si adattano più velocemente, altri ci mettono un po’ di più. Ma penso che adesso sto giocando bene, anche con la palla. Mi sento molto in fiducia con la palla».
Questioni di campo – A un certo punto dell’intervista Rüdiger mi racconta che durante il primo incontro con Sabatini gli aveva chiesto di giocare come centrale di sinistra, perché aveva sempre giocato lì, oppure da terzino. Nella coppia di centrali, non si vede a destra, come sembrerebbe naturale. «Quando gioco a sinistra ho più opzioni, puoi giocare verso l’esterno o l’interno. Se giochi a destra hai solo due opzioni. Ok, ce l’hai anche quando giochi a sinistra… ma è principalmente o la palla lunga o il passaggio al terzino. E la palla al terzino io la chiamo the killer: perché se gliela passi cosa può fare? Ha la linea del fallo laterale dietro di sé ed è più facile da pressare».
Dice che nel periodo di adattamento lo ha aiutato De Rossi, che definisce the person who’s running the business. «Se gli chiedi qualcosa lui è la persona che ne sa più di tutti, ti può dire qualcosa sulla sua esperienza, cosa ha già visto. Può dirti tutto sulla Serie A, anche su cos’è successo in passato. Queste per me sono le cose interessanti».
L’influenza più grande sul suo percorso di crescita però è Luciano Spalletti. «Mi sta insegnando molto in difesa», dice. «Penso si veda: da quando è arrivato sono migliorato molto, secondo me». Soprattutto riguardo al lavoro tattico, Spalletti gli ha aperto le porte di un mondo che prima non conosceva. In Italia si lavora più sulla tattica rispetto alla Germania? «Sicuramente. Soprattutto da quando è arrivato Spalletti: è stato davvero… wow!».
«È un dato di fatto che in Italia si pensa più alla tattica», dice Rüdiger. «Guarda la Juventus: hanno vinto il campionato per sei anni, ma la differenza è come giocano. Non pressano come degli stupidi, usano la testa; pressano a seconda della situazione, a volte aspettano».
Ancora una volta torna il discorso del tempo: «Sono anni di duro lavoro: ognuno sa dove deve andare, e penso che non si parlino nemmeno così tanto tra loro. Chiellini, Barzagli, Bonucci e Buffon giocano da tanti anni insieme, in Nazionale e nel club, e quindi sanno perfettamente cosa sta facendo ognuno. Non credo che in Germania ci sia una squadra che difende come la Juventus. La Bundesliga è più fisica, è più di corsa. Le squadre vanno avanti e indietro. Se puoi correre per 90 minuti allora va bene».
Quando gli chiedo cosa manca alla Roma per raggiungere la Juventus, la conversazione finisce fuori dalle questioni di campo. «Prima di tutto è evidente la qualità dei giocatori della Juventus», inizia «La seconda cosa è che hanno la mentalità vincente. Ma la cosa più importante è Torino. Roma è diversa, lo sappiamo. Sono passati 16 anni da quando la Roma ha vinto lo scudetto. Quindi le aspettative delle persone sono molto alte».
Fa un esempio: «La scorsa stagione, all’inizio, noi abbiamo vinto tutto e la Juve invece ha perso qualcosa come otto partite, nonostante alla fine abbia vinto il campionato facilmente. Se lo stesso fosse accaduto a Roma sarebbe stato…». Non trova le parole, poi fa un respiro profondo, come se in realtà non ci volesse pensare oltre: «E invece lì non è successo niente. Ma io non mi sento sotto pressione, faccio sì che la pressione non arrivi a me». Spiega: «Ogni giocatore ha una mentalità diversa: alcuni se ne curano, e quindi si sentono sotto pressione e non riescono ad essere al 100%. È una cosa importante, penso: se puoi lavorare senza che le persone ti disturbino diventa tutto più semplice».
Zbigniew Boniek racconta di essersi trasferito da Torino a Roma proprio in cerca di un po’ di calore umano. Allora magari ci sono anche degli aspetti positivi. Rüdiger, però, sembra guardare a tutto ciò che viene fuori dal campo come al canto delle sirene, che cercano di farlo deviare dalla strada su cui si trova: «Non è importate se mi piace o no. Conta se tu ci fai caso, se la tua testa è concentrata su quello che pensano gli altri. Io non sono così, ma non significa che non mi interessi».
Utilizzo la parola “isolamento” per definire quello che ha appena detto ma lui mi corregge. «Io la chiamo protezione», mi dice «Sto solo proteggendo me stesso. Perché se inizi a pensare a ciò che dicono gli altri poi non puoi giocare a calcio».
Rüdiger è uno dei tanti giocatori che ha subito insulti razzisti, dai tifosi, ma nel suo caso anche da giocatori avversari. Un’altra cosa da tenere fuori dalla propria testa? «Non dico che gli italiani siano razzisti», dice. «Non mi sembra, però, che la Federazione italiana stia facendo qualcosa per fermare il razzismo. E questo è un problema. Perché in Germania se accadesse una cosa simile si prenderebbero dei provvedimenti. Ma qui non succede niente. È facile dire “No al razzismo”, fare striscioni allo stadio contro il razzismo, ma ad un certo punto devi mettere un limite».
Il problema è riemerso solo poche settimane fa, quando Muntari è uscito dal campo per via di alcuni insulti razzisti dagli spalti e le istituzioni lo hanno inizialmente punito con una giornata di squalifica. «È la sua reazione: lo posso capire perché so come ci si sente. Le persone la fanno troppo facile, dicono: Perché ha lasciato il campo? È facile finché non capita a te, è facile dire: Non devi reagire alle provocazioni. Se ti taglio il braccio esce fuori il sangue, e lo stesso succede se taglio il mio. È lo stesso».
Giocatore di carattere – Rüdiger dice di essere timido. «Nelle interviste non sono timido, ma se mi chiedi di parlare davanti a tutti adesso, allora sono timido». Quando gli chiedo se si sente un leader della sua squadra mi risponde: «Io so qual è la mia parte, che chiamerei “aiutare la squadra dove posso”. Tutti devono essere leader. Il fatto è che alcuni lo fanno con le parole, io preferisco farlo in campo. Perché non riesco a parlare di fronte a molte persone».
Gli chiedo se il suo atteggiamento in campo, allora, non potrebbe essere una reazione a questa timidezza, ma lui mi risponde: «No, in campo sono solo me stesso».
E cioè, un giocatore esuberante fino quasi all’eccesso, l’unico che abbia mai detto di ascoltare la musica prima delle partite per calmarsi, invece che per caricarsi. Per trovare un equilibrio di mezzo, come ripete spesso. Diventa timido se si parla degli aspetti più divertenti del suo andare spesso fuori giri, come le esultanze smodate, i pugni ai compagni per festeggiare e quello strano balletto con le ginocchie alzate che ha fatto in un derby, quando la palla stava per uscire dal campo, come se stesse saltando su dei bracieri ardenti.
«Quella è stata una cosa non intelligente, volevo chiedere scusa», mi dice in relazione a quella mossa, che personalmente trovavo solo divertente ma che per alcuni tifosi è risultata offensiva «Non ho mai voluto offendere nessuno: l’ho fatto anche in Bundesliga. Ma qui le persone vogliono prendere delle piccole cose e farci dei grossi problemi».
Quest’anno Rüdiger è stato espulso due volte, una, in Europa League, per aver messo le mani addosso all’avversario, e anche l’anno scorso ebbe problemi di questo tipo. Prima era ancora più ingestibile, dice di essere migliorato graziare a Vedad Ibisevic, attaccante bosniaco che ha giocato con lui allo Stoccarda (oggi all’Hertha Berlino). «Non ero una persona facile, mi arrabbiavo sempre, anche in campo a volte perdevo la testa. È stato lui a mostrarmi la via dell’equilibrio di mezzo. Per la mia forza mentale è stato molto importante. Mi parlava come un fratello maggiore e una persona del genere non è facile da trovare oggi in questo mondo».
Nel suo percorso di crescita è stato molto importante anche il connazionale Jerome Boateng. Il loro rapporto va oltre la semplice amicizia o la pura ammirazione sportiva, l’immagine che lo definisce è quella del passaggio del testimone. È Boateng, anch’egli di Berlino, di origine africana, cresciuto da attaccante come Rüdiger, ad aver tracciato la strada in cui si può rivedere. «Io gliel’ho detto: se non avesse giocato la finale contro l’Argentina, la Germania non avrebbe vinto».
Gli chiedo qual è la qualità che invidia di più a Boateng. Risponde: «Prima di tutto ha un’ottima tecnica di passaggio. Quando gioca, tutto sembra semplice nonostante sia molto veloce. È sempre calmo quando gestisce il pallone. Lui dà tutto ma da fuori sembra comunque che non stia facendo sforzo».
In un famoso pezzo per The Player’s Tribune, Boateng ha indicato la calma tra le caratteristiche più importanti del suo lavoro da centrale di difesa. Forse è questo che gli manca per raggiungere il centrale del Bayern Monaco? «Credo che la differenza stia nel numero delle partite giocate. Lui ha 28 anni, io 24. Io so da lui, perché lui me l’ha detto, che lui non era al mio livello quando aveva 24 anni. Non era così avanti». L’espressione usata rende chiaro che, anche se uno si trova più avanti rispetto all’altro, la strada è comunque la stessa.
I suoi binari sembrano essere sempre tracciati, anche nella vita quotidiana. Per chiudere gli chiedo cosa preferisce fare quando esce a Roma. Mi dice che gli piace andare allo zoo: «Vedo i leoni e me ne vado». Finisce l’intervista e Rüdiger se ne va velocemente, com’era arrivato, quasi di fretta. Sembra che si sia fermato troppo a lungo in una tappa del suo viaggio.