Pare di vederli, gli sciacalli. Escono preferibilmente quando è buio e si avventano sulle carogne. Stanno lì ad aspettare solo quello: che il progetto dello stadio della Roma deperisca, si smonti come un soufflè, si sfarini affastellando nuovi detriti alle macerie che deprimono l’intera area di Tor di Valle. Sembra Suburra. Anzi, è Suburra. Da 2606 giorni è così, da quando un signore di Boston ha bussato alle porte del Campidoglio chiedendo il permesso di regalare alla città un investimento di più di un miliardo di euro, interamente finanziati, per dotare la sua squadra, l’As Roma, di una nuova casa, imprescindibile condizione per renderla realmente competitiva (e, ovvio, più redditizia: mister Jim non è mica Babbo Natale).
Ed è da 2606 giorni che ad ogni “sì” corrisponde un “ma” che invece di essere la naturale obiezione di qualche difensore civico giustamente preoccupato che si faccia ogni cosa secondo le regole – e tutto nei (diversi) progetti presentati è stato realizzato ottemperando ad ogni prescrizione – è solo il pretesto che consente agli squali di ogni colore della politica e dell’imprenditoria romana e nazionale (quell’allineamento, la “congiunzione astrale”) di ritagliarsi uno spazio per aggiungere un posto alla tavola imbandita. E ad ogni rimando, c’è qualcuno che esulta, che l'”aveva detto”, che vuole fermare tutto in nome di chissà quale giustizia: non certo quella delle leggi e delle regole. (…)
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