Luciano Spalletti, è passato poco più di un anno da quando ha deciso di intraprendere una seconda esperienza a Roma, sei anni e mezzo dopo la prima e dopo aver vissuto un periodo di successi in Russia. Cosa l’ha spinta, come si dice in francese, a gettarsi nuovamente nella bocca del lupo, in questo caso della lupa?
“Semplicemente l’affetto per questa città, per questo popolo romanista, per questo movimento presente ovunque. Ma soprattutto sono tornato per l’amore per questa che è la squadra del cuore dei miei figli”.
Il contesto in cui si lavora può influire: Roma è considerata una piazza molto calda, molto particolare… “In effetti lo è! Il fatto che Roma sia il centro della politica italiana influisce su tutto il resto. Qui va tutto ad una velocità superiore, tutto è amplificato, moltiplicato. Tutto questo influenza anche il modo di vivere il calcio nella città. Un luogo dove la partecipazione del pubblico, il coinvolgimento dei tifosi è assoluto. A Roma ognuno vuole avere l’ultima parola, trovare l’argomento che fa la differenza. Per gli sportivi è come se fosse derby tutto l’anno!”.
Un fenomeno accentuato dalla presenza imprescindibile delle radio che parlano di calcio 24 ore su 24… “Le radio di per se non sono un problema. Anzi, contribuiscono ad aumentare l’interesse per il calcio, fanno partecipare la gente, offrono le chiavi dialettiche per farlo. Questa passione non impedisce di lavorare bene a Roma, le assicuro che i calciatori ci vengono volentieri. (Luciano Spalletti indica il cielo con una mano) Ha visto che bella giornata oggi, che sole? Come si fa a dire che non si lavora volentieri a Roma?”.
Magari pensando alla complessità dei rapporti con i media… “Di me ciascuno può scrivere quello che gli pare, non è un problema. (Assume un atteggiamento ironico) Direi anche che è un piacere!”.
Un piacere, lei dice, ma il suo rapporto con i media sembra piuttosto dialettico… “La prima volta che andai via da Roma praticamente fui costretto a farlo. Qualcuno cominciò a scrivere che Spalletti non aveva vinto nulla, un po’ di gente gli è andata dietro, sono stato messo nelle condizioni di andarmene. Solo che dopo di me certe situazioni sono successe anche ad altri e sono andati via allenatori che ora guidano squadre di primo piano. Questo significherà qualcosa. Sono tornato a Roma dopo quasi sette anni e ho ritrovato le stesse situazioni, gli stessi meccanismi. Allora dico: se si continua così, se si ripetono sempre questi comportamenti, in questa città continueremo a non realizzare mai niente. E’ per questo che sono tornato: per non lasciare la Roma in balia di certe persone che pensano di fare il bello e il cattivo tempo”.
In tutto questo che ruolo hanno i tifosi? “I tifosi della Roma sono i supporter della squadra della capitale d’Italia. Sono caldi, passionali, sono consapevoli di cosa rappresenta la loro città e questo li spinge ad avere ambizioni elevate. A Roma non si gioca per partecipare, c’è la necessità di vincere”.
Ad ascoltare le sue parole, il quadro ambientale non sembra dei migliori… “Le ripeto: a Roma le condizioni di lavoro sono eccellenti. Esistono solo delle situazioni e dei personaggi che agiscono da ostacolo”.
Lei crede che allenare a Roma sia un’impresa alla portata di tutti gli allenatori? “Sicuramente per allenare la Roma è necessario avere carattere e un po’ di esperienza. Detto questo, in giro ci sono diversi allenatori che potrebbero tranquillamente guidare una squadra come questa. Negli ultimi tempi in Italia sono emersi alcuni allenatori di grande qualità. Oggi il calcio italiano è nelle loro mani”.
Una sorta di “nouvelle vague”? “Ce ne sono tanti. Potrei citare Vincenzo Montella (Milan), Marco Giampaolo (Sampdoria), lo stesso Stefano Pioli (Inter). Uno dei più bravi, sebbene sia emerso tardi, è Maurizio Sarri (Napoli). E’ vero che nel calcio spesso le partite le risolve il campione, ma quando questo non è sufficiente loro sono tutti tecnici capaci di leggere perfettamente sul piano tattico le partite e mettere in difficoltà anche avversari più forti di loro”.
Tornando alla Roma di quest’anno, lei ha dovuto fare a meno di Pjanic, passato alla Juventus. Un bell’handicap… “Pjanic è stato una delle chiavi dell’ottima riuscita del girone di ritorno dello scorso campionato. A centrocampo avevo puntato tutto sull’asse De Rossi-Pjanic perché mi piaceva l’idea di avere in mezzo al campo un giocatore dai piedi buoni in grado di giocare la palla con qualità e velocità. In questo ruolo, a mio avviso, Pjanic è il più bravo in Italia”.
Lei ha ovviato alla partenza del bosniaco utilizzando Nainggolan come trequartista. Una soluzione che inizialmente ha lasciato perplessi molti… “In effetti all’inizio nessuno vedeva bene Nainggolan davanti ai centrocampisti. Ora ogni critica è superata. Adesso provi lei a proporgli di giocare in un ruolo diverso, vedrà come la guarderà di traverso! Li si trova alla grande, è dinamico, contrasta e al tempo stesso può anche cercare con più insistenza il gol”.
Sul piano tattico, qual è la differenza tra la sua prima Roma e quella di oggi? “La Roma attuale occupa il campo in maniera un po’ differente. E’ più allungata, meno avvolgente. Ma questo fatto è determinato anche dalle diverse caratteristiche individuali dei calciatori”.
Come allenatore, le è capitato di gestire l’ultima parte della carriera di un giocatore diventato ormai un mito: Francesco Totti. Nel recente passato c’è stata qualche polemica al riguardo, adesso le cose sembrano essersi sistemate. Come vive tutto questo? “Avere ancora a disposizione Totti, nonostante l’età, offre un vantaggio notevole: quando lui entra in campo si crea improvvisamente un’atmosfera, una partecipazione del pubblico incredibile. Grazie alle cose grandiose che ha fatto nel corso della sua carriera, a tutte le giocate uniche che ha mostrato ai tifosi, Totti possiede un magnetismo straordinario. Mi viene da sorridere quando, ancora oggi, qualcuno cerca di paragonarlo a qualche altro campione del passato. Totti somiglia solo a Totti! E’ unico, è l’assoluto! Detto questo, è importante che la passione e l’entusiasmo che lo circonda non tolga forza anche agli altri calciatori. Perché lui agisce all’interno di un collettivo”.
Tempo fa lei disse che se la società non rinnoverà il contratto a Totti anche per la prossima stagione lei andrà via. Perché questa presa di posizione? “Perché ad un certo punto, siccome il rinnovo del contratto tardava ad arrivare, alcuni hanno cominciato a scrivere che ero io a volere che lui smettesse di giocare. Il che è completamente falso. Anzi, io penso che Totti debba giocare fino a quando lo vorrà e la società deve accontentarlo. Se non lo farà andrò via. Così nessuno potrà avere dubbi su come la penso”.
E lei? Cosa vede nel suo futuro? “Io resto fedele alla mia vecchia idea del privilegiare il gioco di squadra, il collettivo. Riuscire a mettere al centro il pallone e attorno a questo far ruotare tutti gli altri elementi: fisicità, velocità, carattere, qualità tecnica individuale”.
Va bene, ma il suo destino e quello della Roma saranno ancora legati a lungo oppure no? “A Roma, per tutta una serie di motivi è imperativo vincere. Ormai da questo non si esce più fuori. Non c’è la possibilità di immaginare una crescita graduale, tutto è rapido, accelerato. Quindi è molto semplice: se non vincerò qualcosa significa che non avrò fatto meglio dei miei predecessori e quindi andrò a casa”.