I pronostici non sono mai stati il suo forte. Come del resto la comunicazione. Ottimo allenatore, pessimo comunicatore: la fotografia di Luciano Spalletti. E così, quando il 30 maggio del 2016 si lanciò in un azzardato «ora diventeremo amici, amicissimi», riferito a Totti, queste parole strapparono più di un sorriso. Già all’epoca, Lucio sapeva in cuor suo che non sarebbe stato possibile. Perché andando via, brandendo un megafono e urlando «Forza Roma» – per poi qualche giorno dopo esordire con «Far parte dell’Inter ti perfora il cuore, noi siamo dell’Inter» – non ha mai voluto centrare il problema. Che non è stato nel minutaggio di Totti nella sua ultima stagione da calciatore. Nessuno era così stolto, nemmeno Francesco, da preferire un campione 40enne a Dzeko. Ma il trattamento riservatogli, tra cacciate da Trigoria e reiterate dichiarazioni volte ad umiliarlo («Lui poverino, vuole giocare. Viene al campo ma poi quando lo metto dentro, come con il Villarreal, non tocchiamo palla»). Il tecnico però, cercava l’alibi perfetto da recitare in pubblico per giustificare il suo addio. Maturato da mesi e confermato quando i programmi della società (che di lì a poco avrebbe ceduto Salah, Paredes e Manolas, poi rimpiazzato in extremis con Ruediger), prospettatigli in una cena con Baldini e Pallotta a Roma, non lo convinsero.
«SE LO VEDO, LO SALUTO» – Per questo ieri il sorriso è tornato ad albergare sui volti di molti, ascoltandolo nel pre-gara di Roma-Inter: «Totti? Se lo trovo, lo saluto volentieri. Purtroppo non ho avuto tempo di leggere il libro. Ho letto le cose che riportate soprattutto voi giornalisti Secondo me ci sono delle precisazioni da fare ma si faranno con calma». In parole, apparentemente distensive, c’è tutto Lucio. A prima vista affabile, amico di tutti (e di Totti: «Lo saluto volentieri») ma all’improvviso capace di puntare il dito («Voi giornalisti») e diventare sibillino («Lo saluto se lo trovo»; «Ci sono precisazioni da fare ma con calma»), lasciando immaginare chissà quali verità sopite. Di certo sarà difficile rivedere sfide all’Ok Corral tra i due come nello spogliatoio di Bergamo o nel pre-gara con il Palermo. Meglio così. Oggi Spalletti torna in quello che è stato il suo stadio che lo ha prima osannato e poi fischiato. Quello che non capisce (o finge di non capire), è che il difficile rapporto con Totti inevitabilmente c’entra. Ma non è tutto. Quello che ha dato fastidio – soprattutto a chi lo osannava e credeva ciecamente ai suoi j’accuse contro i media e l’ex capitano – è stato scoprire che il tecnico, al netto delle rassicurazioni pubbliche il giorno del suo addio («Ad oggi non ho parlato con nessuno») e degli 87 punti sul campo (record del club), aveva scelto di andar via da mesi. Aspettava l’Inter (come poi confermerà a Milano: «Mi hanno cercato prima della fine del campionato») perché, a differenza della Roma, pensava e pensa che possa essere l’unica realtà economica che può contrapporsi alla Juventus. Lecito, figuriamoci. Sarebbe però stato bello ascoltarlo da lui, anziché voler passare per martire. Sarà per un’altra volta anche perché, prima di congedarsi, Lucio ha citato Franco Califano che sulla lapide ha voluto la scritta Non escludo il ritorno’. Un modo per tenersi così aperta l’ennesima porta. Magari per richiuderla, in futuro, una terza volta. Anche questo, a suo modo, sarebbe un record.