«Perché piangi?». E adesso come lo spiego a questo ragazzino di 8 anni che mi siede accanto nel settore 25AS della Tevere, con indosso la maglia di De Rossi e una passione per El Shaarawy dichiarata alle presentazioni? Oltretutto, svela, «è la prima volta che vengo allo stadio». Distolgo per un istante lo sguardo dalla curva Sud, dalla bellissima coreografia che accoglie l’ingresso in campo delle squadre, da quelle quattro parole semplici che raccontano una verità assoluta, insindacabile: «Totti è la Roma».
CHE RABBIA – Eccolo, Francesco. Ha la pettorina verde di chi, almeno all’inizio, deve stare a guardare. Si allontana dalla panchina, il cuore, in panne da giorni, forse da mesi, lo porta dalla sua gente, sotto quelle quattro parole. Arriva la prima, intensissima, scarica di applausi. Il prepartita è stato un rodaggio che ha avuto il suo apice nel ricordo di Agostino, sulle note della Leva calcistica di De Gregori. Sono piovuti applausi gentili. Ora, invece, è un battito rabbioso, che solo molto più tardi, al calar del sole, si addolcirà di tenerezza. Eccolo, il Capitano. «TottiTottigol», con tutto il fiato che c’è. Saluta, ringrazia, indugia. È il primo di una lunga serie di arrivederci, ma sembra già infinito. La partita inizierà con cinque minuti di ritardo, pazienza. Ma poi si deve per forza giocare? Ecco, in quell’istante in cui ho portato lo sguardo dalle parole d’amore della Sud agli occhi interrogativi del ragazzino, sono entrati tutti questi pensieri, si sono fatti largo tra le lacrime. Dario, il bambino, mi fissa. «Ma perché piangi?».
UN ROMANZO – La partita dovrebbe essere un dettaglio. La pratica Genoa dovrebbe essere liquidata nel primo tempo, in modo da consentire al Capitano un’ultima esibizione tranquilla, magari con un ultimo gol, un ultimo ciuccio e un’ultima corsa oltre i cartelloni pubblicitari. Dovrebbe, doveva, almeno questo speravamo. Si è capito presto che non sarebbe stato così. Poi, col passare dei minuti si è capito che la Roma era stanchissima e il Genoa una montagna altissima, forse troppo alta da scalare. Il gol di Perotti, al 90’, ci permette di dire che questo secondo tempo è stato un romanzo, una di quelle pagine che solo il calcio sa regalare, con il nostro Capitano in campo per una porzione di partita vera, anzi durissima, prima sull’1-1, poi sul 2-2. Con Daniele De Rossi che arriva su quel pallone un istante prima di lui, e pensi che sarebbe stato magnifico, incredibile, pazzesco se avesse segnato il Capitano, ma dura un attimo, perché l’idea che questo gol rappresenti il passaggio di consegne tra Capitan Passato (ahimè) e Capitan Presente (lo merita), è struggente ma bellissima.
PER FINTA – Negli ultimi lunghissimi minuti, dopo la rete di Perotti, la palla è rimasta incollata al piede di Totti, nei pressi della bandierina del corner tra la Monte Mario e la Sud, esattamente come ai vecchi tempi, quando la patata bollente si dava a lui per congelare il risultato. Ecco, vorrei, forse vorremmo tutti congelare anche il cronometro. «Fosse per me, starei qui altri venticinque anni», dirà lui qualche minuto più avanti, cercando di farci sorridere. L’ultimo gesto calcistico di Totti qui, ovunque, per sempre? Chissà è una finta per conquistare un calcio d’angolo che inganna l’avversario, ma non il tempo. Purtroppo. Fischia Tagliavento, la Roma vince, va in Champions, sarà la prima senza Francesco, ci avete pensato?
NUVOLARI – «Ci siamo», dice al microfono il Capitano. Il giro di campo con Ilary e i figli è stato il momento più struggente che sia mai stato vissuto in questo stadio. Lunghissimo, bellissimo, dolorosissimo. Ad un certo punto, Francesco ha il primo vero cedimento, si ferma a metà della Tevere. Piange già da un po’, non ce la fa ad avanzare. Lo abbracciano i figli, lo rincuora Ilary, lo scuote Vito Scala. E la gente salta in piedi, lo saluta con la mano, gli grida parole d’amore, come il Nuvolari di Dalla. Applaudiamo, e il battito ora è pieno di dolore e gratitudine. «Adesso sono io che ho bisogno di voi», ci dice guardandoci tutti, uno ad uno, mentre sventoliamo i nostri cartelli col numero 10. «Noi non ti lasceremo mai», gli rispondiamo. Prima dei saluti finali, mentre scorrono le note de «La vita è bella», all’apice di una serata indimenticabile, anche Dario è commosso. «Perché piangi?». «Perché è un pezzo di vita che se ne va». E allora, come diceva quello striscione, «Abbracciami finché non torna Francesco».