Che si fosse arrivati ai titoli di coda lo avevano capito quasi tutti nella mattinata di giovedì scorso. Aeroporto di Oporto, incrocio tra una quindicina di tifosi e i dirigenti della Roma. Dito puntato su Ramon Rodriguez Verdejo, el senor Monchi. Scambio di battute pesanti, al punto che il dirigente spagnolo, una volta sbarcato a Roma, si affrettò a chiedere scusa, via social. Ma il punto che vogliamo sottolineare non è questo. Il punto è che in quello scambio di battute, c’era la conferma di come Monchi non fosse più Monchi. Cioè il motivo con cui, quandò arrivò, ci spiegò il motivo della sua scelta Roma.
Quello, appunto, di un progetto che gli avrebbe permesso di continuare a essere se stesso, quello che a Siviglia aveva stupito il mondo, quello che aveva alzato nove coppe al cielo, quello osannato in mezzo al campo a Siviglia nel giorno dell’addio. Una scelta, da parte della società, che fu avallata da tutti, anche per il respiro internazionale che poteva garantire al club giallorosso che si era assicurato quello che, in Europa, era considerato il più bravo.
Adesso lo è diventato Walter Sabatini dopo che questa città, da molte parti, nei suoi tormentati anni romanisti, lo ha insultato nelle maniere più volgari immaginabili. Monchi ha vissuto la stessa via crucis, è arrivato da vincente, se ne è andato da sconfitto, fermo restando che nella sua avventura romanista di errori ne ha commessi parecchi e siamo convinti che lui sia il primo a saperlo.