Un ragazzino che segna e si mette a correre verso la curva come fosse quella inarrivabile dell’orizzonte, perché in fondo è così. Una miscela di corpi scomposti e di bocche spalancate che urlano e si fanno male di gioia mentre precipitano verso quel biondo che non vuole altro che questo. Una cascata addosso di romanismo. Un Niagara di felicità. Una, due volte. Due botte d’adrenalina. Due shock di Roma. Cose nostre. Roma-Porto il giorno dopo è soprattutto quel paio d’istanti esplosivi, ancora più del 2-1, del rammarico del gol di Lopez, di tutti i dubbi e i rischi del ritorno, delle statistiche sulle doppiette italiane più giovani in Champions, del Porto che non perdeva da quando c’era Juary eccetera.
All’innamorato della Roma credo interessi soprattutto quel big bang che si ripete ogni volta (c’è un universo che si ricrea quando una maglia rossa va verso casa) e che da tanto tempo non si vedeva, quella smania, quella corsa che sa di ginocchia sbucciate, sampietrini e fontanelle, cose che noi vedevamo normalmente per esempio quando c’era Bruno Conti a correre verso la Sud come a riprendere fiato e a rinnovare un’eterna promessa. (…)
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