I mister plusvalenza nascono anche in Ucraina. Sergei Palkin, 43 anni, è l’uomo che gestisce lo Shakhtar Donetsk dal 2004, quando è stato nominato amministratore delegato dal padre padrone del club Rinat Akhmetov. «Ma no, credetemi, decide tutto lui. Il presidente è profondamente coinvolto nelle vicende della squadra. Niente si muove senza il suo consenso». Alla vigilia della sfida contro la Roma, Palkin è stato nostro ospite in redazione.
Ci spiega meglio il signor Akhmetov, uno degli uomini più ricchi del mondo? «Semplice. Fa tutto per lo Shakhtar. Anche il direttore sportivo. Essendo un grande conoscitore di calcio, a volte segue una partita del campionato brasiliano e poi ci chiede di comprare un giocatore. E’ successo, anche se non ricordo chi fosse».
Ecco, come si costruisce una squadra più brasiliana che ucraina nell’Europa dell’Est? «E’ stata sempre un’idea di Akhmetov. La sua filosofia è avere sempre uno stile di gioco offensivo. E chi meglio dei brasiliani incarna questo spirito? A noi non basta vincere. Vogliamo farlo divertendo: per noi il calcio è un festival».
Ma li scovate giovanissimi e poi li rivendete a peso d’oro. Come fate? «Abbiamo 7-8 scout che lavorano per noi. Il resto lo fa una fitta rete di informatori. Non pensate però che certi investimenti costino poco: Willian lo pagammo 15 milioni. Certo, poi ne ricavammo molto di più (sorride: 35 milioni dall’Anzhi, ndr)».
La prossima plusvalenza arriverà da Fred, il match winner dell’andata. E’ già del Manchester City? «No ma sicuramente andrà via a giugno. Se non al City, al Manchester United. E’ pronto per i migliori palcoscenici perché oltre a essere bravo è molto professionale. Se gli chiedessi di restare un altro anno con noi, lo farebbe».
Anche Bernard andrà via. Ma a parametro zero: non è da voi… «Vedremo. Dopo la partita con la Roma si opererà alla spalla e andrà in Brasile, visto che non potrà più giocare. Non ho perso la speranza di rinnovare».
Come può un brasiliano vivere in Ucraina? «La nostra è una struttura molto complessa. Abbiamo ad esempio un ufficio adattamenti, se posso chiamarlo così, al quale affidiamo tutti i calciatori stranieri per agevolarne l’inserimento».
La questione si è fatta ancora più dura quando è scoppiata la guerra: da quel momento siete diventati una squadra nomade… «Non una bella esperienza. Quando sono iniziati i bombardamenti, la mia sedia allo stadio stava bruciando. Non avevamo nemmeno la luce, sei giocatori non volevano tornare. Però piano piano ci siamo rialzati. E vi dico una cosa: un giorno torneremo a giocare a Donetsk, la nostra città».
Fonseca che allenatore è? «Ha una mentalità simile alla nostra, farà una grande carriera. Per questo lo abbiamo scelto. Tutti insieme. Allo Shakhtar non esiste un direttore sportivo perché non serve, ma un gruppo di lavoro sì. E come dicevo prima, l’ultima parola spetta sempre al presidente».
Domanda banale: chi passa il turno? «Cinquanta e cinquanta. Per noi è una grande occasione ma per la Roma è forse ancora più importante. Loro hanno un fatturato molto superiore al nostro e stanno costruendo il loro futuro».
La filosofia dei club è simile: si compra e si vende… «E’ inevitabile se non vuoi fare debiti. La regola dovrebbe essere questa, chiudere in pareggio il bilancio: non basta il fair play finanziario».
C’è un giocatore della Roma che vedrebbe bene nello Shakhtar? «Facile: Nainggolan. Ho provato anche a prenderlo quando era a Cagliari. Siamo arrivati vicinissimi ma poi l’affare saltò».