Prima dell’allenamento, Valverde ha radunato la squadra a centrocampo e parlato a lungo con i calciatori, guardandoli negli occhi. Tre minuti di arringa, per poi chiudere il discorso con un avviso: «Non ragionate su andata e ritorno, giocate come se ci fosse solo questa partita». Curioso dover chiamare all’attenzione una squadra che in campionato non ha mai perso e l’unica competizione in cui ha fallito è la Supercoppa estiva col Real. Ma è il segno della rivoluzione di Ernesto Valverde. L’uomo a cui in estate tolsero Neymar e che qualcuno a Barcellona immaginava come un passante. Poteva essere l’inizio della fine, e invece proprio sull’assenza del brasiliano ha costruito la sua rivoluzione. Questione di numeri: quando ha capito che il mercato non avrebbe potuto offrirgli un’alternativa, ha scelto di non sostituirlo. Ma di stravolgere la squadra. Un nuovo modulo, il meno “catalano”: quel 4-4-2 che in Europa vuol dire “primo non prenderle”. Un modulo dimenticato in qualche soffitta da una ventina d’anni, dopo aver riempito le lavagne dei “sacchiani”. Curioso che torni in auge a Barcellona, dove è nata la nuova filosofia globale, il “guardiolismo” dei mille emuli con poca fortuna. E su cui è inciso a fuoco il 4-3-3, già vangelo al Camp Nou con Cruyff e van Gaal, ma pure Rijkaard e Luis Enrique. L’ha rinnegato Ernesto, nato in un paese di 300 anime dell’Estrema- dura, Viandar de la Vera, e finito a guidare un club che conta 145mila soci. Lui, cresciuto nel Bilbao con l’etichetta di predestinato ma poi costretto all’esilio all’Olympiacos dopo aver sfiorato il Parma quando lo spagnolo Sanz avrebbe voluto comprare la società.
Nell’ultimo decennio il Barça pareva abbonato agli atti finali della Champions. Dopo Guardiola però qualcosa è cambiato: negli ultimi 4 anni, in semifinale è arrivato una volta sola, nel 2015, quando poi ha alzato la coppa. In tre casi si è inve- ce fatto sbattere fuori, due volte dall’Atletico, una dalla Juve. Con una simile storia di inaspettate delusioni a portata di mano, Valverde ha scelto di non dar per scontato nemmeno quello a cui sono ras- segnati i 3 mila romanisti arrivati in Catalogna. Ma di ricordare alla squadra che «essere favoriti non basta per passare il turno». Farcela, oltre a interrompere l’incantesimo, vorrebbe dire cancellare il fantasma di Neymar: la prossima missione sarà però sbloccare Luis Suarez, l’attaccante vampiro che in Champions, quest’anno, non ha mai segnato. Magari pure per la posizione di Messi, più vicino alla por- ta che nel recente passato. L’effetto sono stati 36 gol in 44 gare stagionali: non lo fermano i fischi, figurarsi un fischietto.
Eppure in Spagna guardano con sospetto all’arbitro olandese Danny Makkelie, mestiere poliziotto. Non ha mai fischiato i catalani, ma ha diretto la Roma in Spagna già lo scorso anno. A Villarreal Dzeko ne fece tre e i romani passarono per 4-0. C’è chi dice sia un arbitro poco casalingo e i numeri – 3 successi su 3 per le squadre ospiti in Europa, quest’anno – gli darebbero ragione. Non resta che capire se basti la poli- zia per fermare il nuovo Barça.