La cultura calcistica argentina individua i ruoli per numeri: il 4 e il 3 sono gli esterni di difesa, il 2 e il 6 i centrali, e il 5 è il centrocampista basso. Il primo costruttore della manovra. Il “volante”. Che non è un sostantivo. Ma semplicemente il cognome di colui che, nella storia del calcio, interpretava al meglio quella parte: Carlos Volante. Nato nel 1910 a Lanus, che è una città che fa parte dell’Aglomerado Gran Buenos Aires, ovvero l’area metropolitana della capitale argentino. Oppure, sempre per dirla come loro, il conurbano.
Prende il nome da quello che era il proprietario di quelle terre, ovvero Anarcasis Lanusse. La versione ispanizzata del suo cognome diventa il nome di una città che al calcio ha dato parecchio. L’avete già sentita? Non solo per il Club Atletico Lanus, la cui storia ha preso una svolta positiva soltanto negli ultimi anni, con 2 vittorie del campionato argentino. Ma probabilmente anche perché lì ha visto la luce Diego Armando Maradona. Cresciuto poi nella vicina villa de emergencia (quelle che i brasiliani chiamano favelas) Villa Fiorito.
Leandro Paredes è nato poco lontano da lì. Precisamente a San Justo. Siamo sempre nella provincia di Buenosa Aires, ma stavolta nel partido di La Matanza. Chiamato così perché lì Diego De Mendoza, fratello del più celebre Pedro (conquistadores spagnolo), venne ucciso insieme al suo esercito dagli indiani querandies nel 1536. Paredes, nella numerazione di quest’anno, ha scelto proprio il 5. Cucendosi sulle spalle quello che dovrebbe essere il suo ruolo, compatibilmente con le scelte dell’allenatore. Ma finisce per essere l’immagine precisa della squadra nella partita con il Porto. Messo in campo dall’inizio a sorpresa e così caricato di grandi responsabilità. Gioca 39 minuti timidi, anonimi e imprecisi. E quando De Rossi si fa espellere viene sostituito da Emerson Palmieri. Che per inciso sarà capace di fare peggio di lui.
Fa 39 minuti ed esce dal campo. Come De Rossi. Come la squadra. Che già prima aveva dimostrato un blackout totale. Lì il “black” diventa “red” come il cartellino sventolato a De Rossi. Mentre l’”out” rimane “out”. Anzi, prende un doppio significato in cui la seconda accezione sta per eliminazione. Ci tocca l’Europa League e non ci sono elementi concreti per dire che non sia giusto. Il giorne sembra piuttosto agevole. Ma non dimentichiamo che il Viktoria Plzen è Campione del campionato ceco. Stessa cosa per l’Astra Giurgiu in Romania. L’Austria Vienna, invece, sembra avere solo un po’ di nome da spendere. Ma servirà tenuta mentale anche lì. Prendete De Rossi. Il fallo è brutto, i tacchetti entrano e in più gli striscia tutta la gamba. Fallo di foga. A me non è sembrato, ma diciamo così. Perché non è nel merito del gesto che voglio entrare, ma nel dove è stato commesso. Cosa ci faceva ad almeno 70 metri dalla sua posizione di difensore centrale?
“Vorrei ma non Porto”, canterebbero Fedez e J-Ax se volessero rivedere il loro tormentone estivo. Che poi, chiedo scusa, ma tocca anche a me rispolverare un vecchio tormentone. Passi l’eliminazione, passi l’ennesima sconfitta casalinga (che nessuno si compiaccia più per una gara di ritorno in casa, non è ancora ben chiaro perché ma tutte le pagine più imbarazzanti della nostra storia le scriviamo nel nostro stadio), ma mai una volta che noi si faccia le cose in maniera pacata. Eliminati da un autogol. Eliminati da un rigore inesistente. Da uno 0-1 frutto della sfortuna o di un po’ di imprecisione. Mai.
Noi dobbiamo sempre fare le cose in grande. Noi dobbiamo sempre fare qualcosa che sfugge alla logica o al buonsenso. Noi dobbiamo dominare ad Oporto, ma pareggiando, e perdere in casa 0-3. Noi siamo come quelli che si ribaltano con la sdraio in spiaggia in agosto. Non possiamo far cadere, per dire, un bicchiere d’acqua nell’intimità della nostra cucina, al riparo da occhi indiscreti. La sdraio in spiaggia in agosto. Gente che ride coprendosi la faccia da una parte e altri che si danno di gomito dall’altra.
In una spiaggia qualsiasi, non è importante dove. Anche al Poetto, per esempio. Dove sembrava si giocasse il secondo tempo di Cagliari-Roma. Quando i rossoblù ci hanno sovrastato sotto tutti i punti di vista raggiungendo un meritato pareggio. Altra rimonta subita, altro doppio vantaggio dilapidato, altra sdraio che si stende per il buonumore di sardi e di chi ha scelto di fare le vacanze nel capoluogo invece di (senza niente togliere) altri posti meravigliosi che quell’isola stupenda propone. Borriello quando ha che fare con le ex non guarda in faccia a nessuno. Che si tratti della Roma o di Belen, stando almeno a quanto diceva il gossip estivo. Non ci sono dubbi invece sul gol di Sau che decreta la parità. Togliendo una vittoria che, vista anche la pausa che arriva, avrebbe permesso di rifiatare sotto tanti punti di vista.
Ad analizzare le cose con una certa calma, dopo i numeri delle ultime annate e l’epilogo di questo preliminare, penso si possa dire che la Champions League non è (o non è ancora, diamoci un po’ di tono) il palcoscenico adatto alla Roma. Non c’è mentalità internazionale, il Porto all’andata era sembrato inferiore nei valori ma quando si è trattato di giocarsela un po’ sporca e di metterla su esperienza e cinismo ci ha fatto gol in 8 minuti e noi abbiamo chiuso in 9 uomini. Tutti d’accordo?