In occasione dei trent’anni dalla scomparsa di Agostino, pubblichiamo un estratto dal libro “Di Bartolomei – Il cuore dentro alle scarpe” di Lorenzo Latini, edito da Garrincha Edizioni, in uscita nei prossimi giorni, ordinabile in tutte le librerie e sulle piattaforme online. Il brano qui riportato racconta la conquista dello Scudetto del 1983, dalla sfida con l’Avellino alla festa tricolore del 15 maggio.
Il 1° maggio all’Olimpico arriva l’Avellino: con una vittoria, alla Roma basterebbe poi un solo punto nelle restanti due partite per essere aritmeticamente campione. Bandieroni e torce accolgono le due squadre. Ago guida in campo i suoi compagni, il solito sguardo accigliato che parla di determinazione e concentrazione.
All’epoca ci sono le interviste flash in campo prima del fischio d’inizio. Un giovane Gian Piero Galeazzi si avvicina ad Ago e gli chiede: «Capitano, mancano tre giornate, l’equipaggio chiede: andremo in porto o no?». E lì Agostino compone una poesia di sole otto parole, ungarettiana per la brevità, ma per nulla ermetica: «In porto sicuramente. Vediamo di arrivarci col vessillo». Piedi per terra. Calma e sangue freddo.
La gara comincia: gli irpini si danno da fare, onorando l’impegno, ma l’assalto romanista è semplicemente incontenibile; ha la forza di una marea che non puoi trattenere né contenere. Al 38’ Falcao la sblocca con un calcio di punizione, non potente come quelli di Agostino, ma la pennellata ha abbastanza forza da non lasciar scampo a Tacconi. Il raddoppio lo firma proprio “Dibba” al 66’: appoggio all’indietro di Falcao, il Capitano non si fa pregare e scarica in porta un destro rasoterra che s’infila all’angolino: 2-0.
Agostino corre, poi si getta in ginocchio e viene raggiunto da Ancelotti, che lo abbraccia, mentre lui alza le braccia al cielo. Due corpi stretti, al punto da sembrare fusi in uno: il rosso delle loro divise risalta sul campo verde e li fa assomigliare a una fiamma, quella che brucia nel cuore di ogni romanista. Quell’immagine sembra dipinta da van Gogh, perché quella fiamma accesa dall’abbraccio tra due uomini in maglia giallorossa è la Roma. Quell’abbraccio è l’attesa lunga 41 anni d’un Godot che, finalmente, arriva.
È l’abbraccio di un padre a un figlio, l’abbraccio a un amico che non vorresti lasciare andar via con un colpo di pistola. Quell’abbraccio è Itaca: quell’abbraccio è la casa di ogni romanista, che torna dopo un’Odissea per rendersi conto che da dove veniamo e dove andiamo, il più delle volte, coincidono. Quella fiamma rossa formata da Ago e Carletto è questo: il più grande «Forza Roma» di tutti i tempi.
Il tricolore arriva una settimana più tardi, a Marassi. Lì dove tutto sembrava essere sfumato dopo appena tre giornate, la Roma pareggia 1-1 e diventa Campione d’Italia per la seconda volta nella sua storia. A ridosso del fischio finale, una marea di tifosi romanisti è lì, ferma a bordocampo, con i carabinieri a cercare di contenerla. Al triplice fischio, quei ragazzi corrono da Liedholm, se lo caricano sulle spalle e lo portano in trionfo, perché quello è (anche) il suo trionfo.
Il trionfo di Falcao e della sua intelligenza. Il trionfo di Conti che sembrava destinato al baseball. Il trionfo di Pruzzo che borbotta e fa gol a raffica. Il trionfo di Maldera che veniva dato per finito soltanto pochi mesi prima. È il trionfo della grinta di Nela, dell’abnegazione di Iorio, della reattività di Tancredi. È il trionfo di una squadra, di una città, anzi, di un ideale. È il trionfo di Agostino: un capitano, un campione, un condottiero. Un uomo.
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FONTE: Il Romanista – L. Latini