Una botta secca, uno stumf, uno stoc, un rumore sordo insieme a un’incredulità che forse è solo un meccanismo di autodifesa quando capitano cose a cui non vuoi credere. Qualcosa che si è rotto dentro insieme al crociato di Zaniolo.
Una corda recisa fra bocca e pancia che ti lascia senza parole e il giorno dopo pure perché non passa. E infatti non c’è niente da dire. Ognuno – calcisticamente parlando – si rincuori da solo perché di fronte a queste situazioni qualsiasi incoraggiamento suonerebbe inutile, necessariamente dovuto quindi scontato e retorico. Che devi dì?
I tifosi della Roma hanno le stigmate, sono segnati dalla loro storia. Forse tutti i tifosi di qualsiasi squadra (ma non è vero!), sicuramente quelli della Roma di più. La più grande è quella di Francesco Rocca, una bandiera lacerata che dovremo sempre sventolare.
L’ingiustizia enorme che ha colpito il più forte e il più giovane, che si è accanita per anni su quello che per noi era Kawasaki, non un marchio, nemmeno la moto, ma il vento. Persino la Roma più solare e felice di sempre, quella dei primi Anni 80, quella di Falcao, dell’Olimpico bianco e dell’epoca della gente ha le sue cicatrici, stanno sulle due ginocchia di Ancelotti: il 25 ottobre 1981 (Roma-Fiorentina) e il 4 dicembre 1983 (Juventus-Roma), nelle due partite in cui forse la Roma ha segnato i suoi gol più belli o iconici (quello di Pruzzo sul tacco di Falcao alla Fiorentina e la rovesciata di Pruzzo all’ultimo minuto a Torino), ci sono le urla e le ferite di Carletto.
Come un assurdo contraltare, un’ombra pure in quell’era in cui c’era sempre il sole. In mezzo vinse lo Scudetto, ma non potè giocare la Partita, prima di prendersi la coppa e la vendetta col Liverpool da un’altra parte. Ma per noi non vale. Anche la Roma del 2001 ha lo sgarro di Emerson (…)
Dateci almeno il tempo di sorgere. Quest’infortunio dal punto di vista tifoso è troppo, dà persino ragione al mainagioismo che da queste parti è sempre di ritorno (perché forse non se n’è mai andato) e appunto lascia il tempo che trova ai «tornerai più forte». Anche a considerazioni giuste, tipo che questa cosa possa unire la squadra, scuoterla, compattarla, spronarla alla battaglia eccetera, ma insomma uno – almeno adesso, chissà domani – è stanco di immaginarsi sempre di avere un agnello sacrificale, soprattutto se poi questi nostri sacrifici non hanno mai tolto i nostri (presunti) peccati dal mondo. Continuiamo a espiare, ma siamo stanchi di farlo. Per questo ai tifosi non c’è niente da dire, sanno, ma a Zaniolo sì.
C’è tempo Nicolò, tu ce l’hai perché sei giovane, perché il destino quello che t’ha tolto, da qualche parte te lo restituirà. Per forza. C’è il tempo e se non dovesse essercene abbastanza prenditi tutto quello che ti serve, semplice. Ormai per i romanisti sei “cosa nostra”, perdona la presunzione, ma questo è. Sei romanista per come giochi. Perché sei un calciatore inedito, ribelle, un’onda in contropiede, anarchico nel tocco e nella corsa, perché corri più di tutti e perché guai a chi quella palla te la tocca. È tua come fanno i ragazzini, come è tua la maglia che a Roma hanno la maggioranza dei ragazzini. È un’enormità questa. Ari il campo col pennello. Sei trattore e violino. Sei cuore acciaio jimba (che in verità era Jeeg va). Perché ormai hai capito che significa avere a che fare con questa maglia, quanto sia tosta, in tutti i sensi, ma anche cosa ti sa far provare in certi momenti. Unici. Solo lei. Unica. Pensa di nuovo al ritorno in campo. Immagina, devi.
Il lockdown sembrava almeno averti restituito l’opportunità di perdere poche partite, pensa adesso che quando tornerai probabilmente, almeno con più probabilità di adesso, troverai il pubblico ad aspettarti. Probabilmente salterai solo un derby… Solo uno. Ti aspettano tutti, ma non per giudicarti: per abbracciarti. Ecco, tutto il tempo che hai davanti è solo quello che ti separa da un grande abbraccio, che è quello di Roma. Non c’è fretta. C’è tutto. E al di là di certi post d’amore per Roma forse persino esagerati, come dire, “imperiali”, tu lo sai che Roma è un’altra cosa, che è speciale, che è Roma. E se per ora non ti ha potuto offrire trofei, e adesso nemmeno il campo, avere il suo amore è un privilegio ancor più grande. «La gente ci amava è questo l’importante» cantava il poeta quand’era poeta. Siccome lo stai provando, sai che è vero. Tu eri la nostra speranza e la nostra certezza quest’anno e non smetti di esserlo. Il tempo resta quello. I ragazzini a Roma quella maglietta non se la toglieranno.
E noi saremo sempre qua, come cantava il Commando Ultrà, «perché la Roma è la squadra del mio cuor». Che alla fine malgrado quel tonfo, quel qualcosa che si è rotto, è già pronto alla battaglia, perché è più grande e più forte di tutti i sacrifici, di qualsiasi agnello sacrificale che toglie tutti i peccati del mondo tranne che ai romanisti. Ma tanto, uno ci va pure all’inferno con la Roma, soprattutto se il paradiso è senza.
FONTE: Il Romanista – T. Cagnucci