Kasper Schmeichel, Daniel Wass, Simon Kjaer, Andreas Christensen, Joakim Maehle, Pierre Emile Hojbjerg, Thomas Delaney, Yussuf Poulsen, Jonas Wind, Martin Braithwaite. E Christian Eriksen. Da ieri, nomi che andrebbero imparati a memoria come le grandi formazioni del nostro calcio.
Attorno a lui sembravano uno stuolo d’angeli, invece erano “solo” una squadra. Quell’immagine ha una valore enorme: racconta l’umanità. La nostra condizione di caducità, la nostra estrema fragilità e il compito di farne qualcosa di esemplare, di vero. Persino di eterno. Qualcosa come la Ginestra di Leopardi, quel fiore che nasce sulle pendici di un vulcano e sboccia malgrado il deserto e malgrado sfiorirà presto.
Un gruppo di ragazzi che si mettono attorno a un loro compagno, un ragazzo come loro, a fargli scudo. Hanno fatto scudo alla morte. L’umanità contro la fine. La speranza disperata, la fragilità che però si erge sul ciglio su quel limite che si attraversa una volta sola e poi non più. (…)
Hanno detto no alla spettacolarizzazione del dolore, perché certe immagini devono restare un tabù, anche perché è attraverso le loro facce, le loro lacrime (Delaney inconsolabile, Christensen a difendere anche il suo pudore mentre difendeva il pudore di Eriksen) la loro disperazione, i loro silenzi, le loro preghiere a qualsiasi dio, che noi abbiamo visto molto di più di quanto qualsiasi telecamera avrebbe mai potuto mostrarci. La speranza e la disperazione, l’angoscia e l’amore. (…)
Kjaer cazzo, soprattuto Kjaer che è intervenuto subito sul compagno, che si è messo lì di schiena al mondo a guardarlo mentre inerme lottava. Senza distogliere mai lo sguardo. Kjaer e Schmeichel, il portiere, che era quello che riusciva a stare meno fermo, lo guardava e guardava fuori. Lui e Kjaer sono andati ad abbracciare l’amore di Christian. Chi ha fatto questo se ha deciso di rigiocare va rispettato, anzi, va ascoltato. Si parla di esempi, eccoli. (…)
Quando si dice che il calcio è vita si dice quello che la Danimarca ha fatto ieri. Si dice, e per tutti oggi la vita ha ancora il nome di Christian Eriksen. Attorno a lui sembravano uno stuolo d’angeli, invece erano qualcosa di più: uomini.
FONTE: Il Romanista – T. Cagnucci