Chi, fra i tifosi giallorossi, ha superato i quarant’anni se lo ricorda con l’immancabile sigaretta, il sorriso un po’ masticato, l’impermeabile chiaro. E la rivalità feroce con la Juventus. È il presidente del secondo scudetto della Roma, l’uomo di Falcao e Pruzzo, Conti e «Ago» Di Bartolomei. L’uomo del Barone, Nils Liedholm, in panca, e di Sven Goran Eriksson, di Ottavio Bianchi e Gigi Radice. Della Roma allo Stadio Flaminio. Della maledetta finale di Coppa dei Campioni – si chiamava così, in italiano, niente inglese, e non c’era mica l’inno ad aprire le partite – con il Liverpool. E di quell’altra maledetta partita con il Lecce che costò quello che avrebbe potuto essere il terzo scudetto con 15 anni di anticipo. Dino Viola, l’Ingegnere («Di presidenti ce ne sono tanti» diceva), è stato l’artefice della rinascita della Roma, da «Rometta» portata in pochissimo tempo alla ribalta del campionato italiano. Ed è il protagonista di un libro appena uscito, scritto con grande eleganza da Manuel Fondato, giornalista e scrittore. Il volume «Dino Viola – La prigionia del sogno», presentato a 26 anni dalla scomparsa dell’Ingegnere, racconta i dodici anni della sua presidenza toccando le corde del sentimento in maniera mirabile: chi, magari bambino, quel 30 maggio 1984 (Roma-Liverpool peri «non praticanti») dovesse raccontarlo a un figlio o a un nipote, probabilmente lo farebbe con le parole di Fondato perché sono le sensazioni che provò chiunque visse quella serata.
Il senso di ingiustizia per il gol convalidato al Liverpool nonostante il palese fallo sul portiere della Roma, Franco Tancredi, in uscita; la sensazione di riparazione al momento del pareggio di testa di Roberto Pruzzo («la testa atomica che aveva cancellato dai baffetti di Grobbelaar quel ghigno urticante» scrive Fondato) e poi i rigori. E Viola che, alla fine, commentò: «La Roma non ha mai pianto e mai non piangerà: perché piange il debole, i forti non piangono mai». L’Ingegnere è stato anche il presidente di Vincenzo Paparelli e di Antonio De Falchi, di Andrea Vitone e Paolo Saroli. Momenti tragici della storia della Roma: Paparelli, tifoso della Lazio, 33 anni, una moglie e due figli, ucciso da un razzo sparato da Giovanni Fiorillo, seduto in curva sud, il 28 ottobre 1979 al primo derby di Viola presidente. De Falchi, accerchiato a San Siro, prima di Milan-Roma del 4 giugno 1989, e morto per le lesioni provocate dal pestaggio di una ventina di tifosi rossoneri. Vitone 14 anni, Siroli, 16, morti il primo il 21 marzo 1982 e il secondo il 13 aprile 1986, entrambi arsi vivi sui treni andati a fuoco senza che le cause siano mai state del tutto chiarite. Ma Dino Viola era quello che, racconta Fondato, di fronte a un tifoso che lo apostrofa, dopo la tragedia di De Falchi, in cerca di un appoggio per la vendetta, risponde: «Non serve a nulla fare colpi di testa o preparare vendette contro altri ragazzi che sicuramente non c’entrano nulla. Venite allo stadio per tifare e basta».
Ogni pagina del libro di Fondato è organizzata con il racconto di un momento saliente della presidenza dell’Ingegnere. Ogni data riporta alla mente momenti speciali, magari appena appena affievoliti nella mente del lettore. Lieti spesso, altre volte drammatici. «Tedesco vola, sotto la curva vola, la curva si innamora» è uno di quelli gioiosi: il canto della Sud, sulle note di una sigla di Lorella Cuccarini, in onore di Rudi Voeller, centravanti tedesco che giocava come terminale offensivo per il«principe» Giuseppe Giannini. Il giorno in cui Lionello Manfredonia, ex Lazio ed ex Juventus, cioè quanto di peggio possa esistere per un tifoso della Roma, venne a vestire la maglia giallorossa creando la più grave frattura fra la presidenza e i tifosi. E il giorno in cui, a Bologna, Manfredonia si accasciò in campo per una sincope da freddo facendo tremare l’intera curva sud con il cuore che smise di battere per secondi che parvero infiniti e che Ernesto Alicicco, storico medico sociale, riportò a pulsare pagando lo scotto con un morso del quale ancora porta i segni sul pollice.
C’è quel Roma-Lecce, perso all’Olimpico per 3-2 che segnò la fine di un sogno, di una ricorsa meravigliosa, di una squadra allenata da Eriksson, in grado di far innamorare i tifosi come è accaduto poche altre volte. Una partita maledetta, ancora oggi oggetto di dubbi e sospetti che fanno il paio con il famigerato gol di Turone e i suoi centimetri. Dino Viola era il presidente della rivalità con Boniperti; il presidente di un calcio fra gentiluomini più che fra miliardari. Una rivalità, quella con la Juventus, che se non è forse davvero nata allora è da allora che si è affermata e ancora oggi incide profondamente sui sentimenti dei tifosi. Un presidente, Viola, che quando gli altri pensavano in piccolo, già aveva capito che lo Stadio di proprietà era la chiave per vincere non casualmente ma con sistematicità. E che propose di costruire, lui che non era un costruttore, uno stadio di proprietà. Sarebbe stato il primo in Italia e forse la storia di Roma e della Roma sarebbero state diverse. Ma, anche lì come oggi, qualcuno parlò di speculazione edilizia. E il sogno di Viola rimase nel cassetto.