Edin Dzeko è un Uomo Buono. Corretto nella vita: ambasciatore Unicef, testimonial di iniziative sempre in difesa dei più deboli. Corretto in campo. Corretto con chi, fino a poco tempo fa, lo contestava perché si mangiava i gol: «Avevano ragione». Sembra un marziano, o forse è solo un problema di traduzione. Cattiveria, per lui, vuole dire tante cose che ha visto e non vuole mai più vedere. Cattiveria, nel nostro calcio, è qualcosa che devi avere. Lo dirà anche Totti, ore dopo quest’intervista, in un’anticipazione di un’intervista a Sky: «Per battere la Juve dobbiamo essere più cattivi contro le squadre piccole». Adesso, dall’alto di 15 gol in 19 partite tra campionato (10) ed Europa League (5, gli ultimi 3 giovedì sera contro il Viktoria Plzen), Edin Dzeko potrebbe prendersi tante rivincite. Ma se la cava con una frase che dice tanto di lui e della sua vita: «È passato. Io vivo nel presente».
È Edin Dzeko che ha capito Roma o è Roma che ha capito Edin Dzeko? «Tutte e due le cose. Sono arrivato da un altro Paese e da un campionato differente. Forse avevo bisogno di tempo, ma adesso ho imparato tanto sulla serie A, sui difensori, sugli stadi e sui club. Si vede anche in campo, vero?».
Spalletti le fa i complimenti, ma batte sempre su un tasto: vuole da lei più cattiveria. I tifosi si innamorano più dei bad boys alla Ibra che dei buoni. Ma si può essere bravi nella vita e cattivi in campo? «Bisogna capire che cosa vuol dire essere cattivo. Se sbaglio due occasioni è perché non sono cattivo? Sbaglio perché sono buono? Per me cattivo significa che devi sfruttare tutte le occasioni che hai, che ti devi concentrare di più. E io mi impegno per farlo. Ma non posso cambiare a 30 anni. Sono fatto così. Sono nato così».
Sarà così buono da parlare con Lulic anche prima del derby? «Posso chiamarlo o non chiamarlo. Non sono superstizioso. Siamo amici da tempo, è un mio compagno di Nazionale. Ma entrati allo stadio, Lulic non esiste. So cosa devo fare. So che dobbiamo vincere e darò tutto per questo».
E con Pjanic, che ha chiamato il figlio Edin come lei? «Mire lo sento, certo. Anche se con la Juve ha fatto dei gol che non mi hanno reso felice. Vabbé, è il suo lavoro…».
Campionato scorso, seconda giornata: Dzeko sovrasta Chiellini e segna, la Roma batte la Juve. Sembrava un passaggio di consegne. E invece… «Non ho visto quella vittoria, o il mio gol, come il momento in cui avevamo ucciso la Juventus. È un discorso, se lo permette, da giornalista. Prima dell’Atalanta tutti a dire che possiamo vincere lo scudetto. Dopo la sconfitta, è un fallimento. Abbiamo perso una brutta partita, ma questo è il passato. Non penso che la Juve è a 7 punti, penso che mancano 25 partite e sono un sacco di punti. Con il Manchester City abbiamo vinto il secondo titolo quando sembrava già del Liverpool. Li abbiamo superati alla penultima giornata. Da allora, per me, non esiste più la frase: è finita!».
È un modo di pensare tipicamente italiano? «C’è anche in Inghilterra e in Germania, ma in Italia di più. Non c’è equilibrio».
In passato disse che l’immagine del calcio italiano non era più buona. Cosa ne pensa adesso che ci gioca? «Primo: gli stadi. In Premier e in Bundesliga sono tutti nuovi e sono pieni. Così, anche se due squadre non giocano bene, la partita sembra bella lo stesso. Spero che le cose cambino. Penso al nuovo stadio della Roma: se uno viene da fuori e vuole investire, lasciatelo fare! Lo stadio, poi, rimane alla città».
La curva Sud non ci sarà nemmeno al derby. Cosa ne pensa? «Abbiamo bisogno dei tifosi. Lo Juventus Stadium è sempre pieno, così è più facile. Il calcio è per i tifosi. Se fai una cosa bella, come il gol di Diego contro il Viktoria, con una “rabona”, è una cosa meravigliosa. È bello anche solo pensare di fare un gesto così».
Forse anche Perotti dovrebbe diventare più cattivo. Anziché esultare ha detto che voleva crossare. Se lo immagina Ibra che si toglie un gol da solo? «Sono corso da Diego e gli ho detto: mamma mia, cosa hai fatto! Lui mi ha detto: l’ha toccata l’avversario. Forse sapeva già che la Uefa glielo avrebbe tolto. Che peccato!».
Pensa mai a cosa farà «da grande»? In Bosnia lei è più importante del Presidente della Repubblica e, forse, è l’unico a poterlo fare in una nazione che da anni non riesce a trovare un accordo sulle parole dell’inno nazionale… «Bosniaci, serbi, croati. Non è facile mettere d’accordo tutti. Bisogna chiederlo ai politici. Penso che, se volessero farlo davvero, una soluzione si troverebbe. Quando vedo i calciatori italiani cantare l’inno, li invidio. È emozionante. No, niente politica. Rimango nel calcio. Ma prima voglio giocare ancora qualche anno, mi sento bene».
A Sarajevo aprirà a dicembre il Museo della guerra dei Bambini: una collezione di giochi «sopravvissuti» all’assedio, le cose più preziose per un bambino in quei tempi terribili. Le ferite si sono rimarginate? «Io sono stato in Bosnia per tutta la durata del conflitto. Ero giovane e forse è stato meglio così, perché non ho capito tutto quello che mi succedeva intorno, come è successo ai miei genitori. È una cosa terribile, che non voglio si ripeta mai. Non solo da noi, ma da nessuna parte. Tanti morti per niente. Che cosa è cambiato? Io ho amici serbi, amici croati. È stata una cosa politica. E io non capisco cosa fanno i politici. Decidono il futuro per tutti, ma il futuro non è più bello grazie a loro. Mi sforzo di pensare che siamo usciti più forti da questa guerra. Non penso mai troppo al passato, vivo il calcio come la vita. Guardo avanti. Questa guerra non esiste più per me».
Sa che fine ha fatto Edin Cieco, quello con gli occhiali neri, il bastone e il cane guida? Lo avevano inventato i leoni da tastiera dei social, protetti dall’anonimato, quando lei sbagliava i gol. L’Uomo Buono si alza, allarga le braccia come fosse un albatros, saluta e sorride. No, non si cambia a 30 anni. Non si cambia se non c’è ragione per cambiare.