Il destino è cieco, il centravanti giallorosso è Dzeko e non è la stessa cosa. Nonostante le periodiche vertigini davanti alla porta e i sarcasmi che seguono. Edin Dzeko ci vede benissimo e anche lungo, sa dove lo conduce la sua strada ed è in grado di venire a patti con la sua eredità. Infatti lo ha garantito ai compagni che continuano a saltargli addosso festosi per ogni gol come quando effettivamente Dzeko sembrava avvolto in una cappa di nebbia e aveva bisogno di incoraggiamento. Adesso è soprattutto lui a incoraggiare il resto della Roma: ho realizzato parecchie reti, dice, ma ancora non mi sento soddisfatto, non ancora pienamente me stesso, mi aspetto giorni migliori.
PRIGIONIERO – Come al solito, ci mette un anno ad abituarsi all’odore di una casa nuova. Nella scorsa stagione 10 gol in tutto e un principio di depressione. Non per lui: per i tifosi che si aspettavano altro. Eccolo, l’altro: nel campionato in corso 13 gol come Higuain e buon posto nella classifica dei cannonieri, poco dietro Icardi e Belotti. Ecco perché s’immagina giorni migliori. Poi ci sono 5 reti in Europa League e una in Coppa Italia. Da noi a 19 gol non è arrivato nessun attaccante che non sia lui. Ah, casomai non l’aveste notato siamo a gennaio, con almeno quattro mesi di caccia libera davanti. E’ il destino, forse. Dzeko è una seconda punta prigioniera di un corpo da centravanti, roba da coming out, condannato a una vita che avrebbe preferito diversa ma che alla fine ha saputo accettare. Sei 1,92 e a Sarajevo ti chiamavano Il Lampione, stai lì piantato a far luce in area e ringrazia il cielo tu che ci arrivi vicino. E’ talmente un bravo ragazzo che ha ubbidito e ha scoperto come segnare in fondo non sia così sgradevole e alla fine è stato premiato dal destino cieco che gli ha fatto trovare a Manchester un Aguero che aveva voglia di pensare lui al mestiere crudele di far gol e a Roma questo Luciano Spalletti per il quale centravanti è un concetto astratto, qualcosa per cui non vale la pena costruire un gioco a una dimensione. Un centravanti non è il Nord della bussola, semmai un filo di Arianna attorno al quale è lecito esplorare altre vie. Chiaro: devi avere uno come Dzeko, in grado di attirare e trattenere i palloni rotanti che altrimenti diventerebbero nuove munizioni per l’attacco avversario, con il controllo sufficiente a sgusciare negli spazi vuoti delle marcature doppie, con i piedi – plurale non retorico – capaci di trovare a quaranta metri il compagno che corre in attesa di qualcosa.
ANSIA – Esattamente com’è accaduto in Coppa Italia contro la Sampdoria. Dzeko a Udine aveva rovinato tutto ciò che una punta non dovrebbe mai, compreso un rigore. Inoltre non segnava da due partite e già sembrava un’eternità. Sta lì in bilico sull’onda come un surfista, che se mette un piede in fallo gli precipitano addosso plastica e acqua. Lui segna ed è un dio, sbaglia ed è un peso. L’ansia di vincere qualcosa genera mostri. Lui con questo non è ancora venuto a patti. Però lo ha aiutato Spalletti. Che continua a dialogare con Dzeko, a parole e a fatti. Gli dice che è troppo arrendevole quando si accartoccia su certe occasioni, così da non fargli pensare che esageri quando al contrario gli racconta che ha poteri magici. Lo scuote e lo incoraggia, solitamente nei momenti giusti. L’anima del bosniaco è mossa da ingranaggi delicati. Spalletti li spolvera da orologiaio anche perché sino a questo momento non è che abbia tante alternative. O Dzeko o Dzeko. Infatti gli ha fatto saltare solo una passeggiata con l’Astra Giurgiu, in Europa League. Contro la Samp lo ha tenuto dentro 62 minuti. In campionato l’attaccante ha disputato le ultime 11 partite da cima a fondo e non è mai stato in campo meno di mezza. Dzeko ha trent’anni e sì, può darsi che il suo meglio debba venire. Che per parecchio tempo ancora faccia luce senza dover restare piantato sul posto.