Dal 2013, quando avvenne l’ingresso di Guido Fienga col ruolo di «strategy media director», nella Roma e non solo, è successo di tutto. Il problema è che la presidenza Pallotta, orfana di nuovo stadio e di successi, lentamente iniziava a sfiorire, così come i dirigenti, che cadevano in disgrazia in un modo davvero shakesperiano. Così Fienga, che in un Paese di c.t. si è sempre schermito riguardo alle sue competenze calcistiche, progressivamente è andato ad assumere un ruolo da «mister Wolf», l’uomo che risolve i problemi, certificato anche dalla carica di ceo e a.d. nel 2019. Con l’avvicinarsi alla prima squadra e alla politica sportiva, anche mediaticamente il suo ruolo è diventato più centrale. Dal 2017 al 2020 l’accelerazione è stata degna di un’astronave.
Il doppio addio di Totti – come calciatore e come dirigente (col pubblico riconoscimento tributatogli dall’ex capitano), quello di De Rossi (con annesso rifiuto di un ruolo dirigenziale), l’abbandono di Monchi e poi il divorzio da Petrachi lo hanno proiettato alla ribalta persino del mercato. La primavera e l’estate 2020, con la pandemia, per Fienga sono stati il momento più difficile della sua gestione, ma il nucleo della squadra è stato mantenuto, finché i Friedkin, sedotti anche dal suo piano di ristrutturazione, non hanno acquistato il club.
Il resto è storia recente. La giubilazione di tutta la vecchia dirigenza e la conferma di Fienga è stata segno di stima, anche se presto si è capito come una proprietà sempre presente non abbia bisogno di un tipo di ceo molto decisionista. Tra i ringraziamenti, spicca però anche quello ai tifosi della Roma «per avermi insegnato che la Roma non è solo un’azienda ed è molto più di una squadra di calcio».
FONTE: La Gazzetta dello Sport – M. Cecchini