Investirà? Certo dopo questo fallimento sarà tuttopiù difficile. Ma per non ripetere gli errori del recente passato, Friedkin dovrà presto, molto presto, dimostrare di aver capito cosa vuol dire possedere la Roma: entità corposa e insieme sfuggente, fortissimo agente patogeno (se l’amore è patologia come sostenevano Truffaut e molti altri) e struttura raramente redditizia. La Roma è un patrimonio variamente misurabile, benché lo strumento più indicato resti il termometro della passione, che è una gran fregatura.
Chi pensa di trasformarla in un’azienda moderna perde, chi rispetta le sue radici sentimentali ne trae beneficio. Potranno mai aiutare Freidkin i suoi predecessori, opportunamente convocati mediante seduta spiritica, a disimpegnarsi? Proviamo. In 93 anni, caro Friedkin, la Roma è passata di mano come una patata. Più passavano i giorni, più la patata diventava bollente.
In ogni epoca sono state alimentate e deluse speranze. Non vi è stata stagione in cui una cessione non sia stata vista come il più infame dei tradimenti e un mancato acquisto come il peggior messaggio d’amore spedito alla folla innamorata.
La Roma ha quasi avuto più presidenti che centravanti. Nella palazzina della famiglia di Italo Foschi, robusto e virile rappresentante di una dinastia di convinti fascisti, nacque la Roma il 7 giugno del 1927. Ma il primo presidente con funzioni attive, fu Renato Sacerdoti, che fece costruire il Campo Testaccio. Ebreo, quasi a compensare involontariamente le premesse littorie del club, nel ’35 Sacerdoti fu arrestato ed esiliato.
Seguirono Scialoja, Betti, Bazzini, Baldassarre. Sotto Betti, ex funzionario dell’Agip che portò in panchina Alfredo Schaffer, la Roma vinse lo scudetto del ’42, che si concretizzò il 14 giugno con il 2-0 al Modena. Il “Messaggero” scriveva: «Il gioco della Roma di Schaffer è quadrato, robusto, sbrigativo e pratico».
Tutti aggettivi che al giorno d’oggi vorrebbero dire: “Una squadra succhiaruote!”. Altri tempi. Tanto è vero che lo striscione più “caldo” sulle tribune dello Stadio Nazionale, in quel caldo pomeriggio di 78 anni fa, era: “Viva la Roma Campione d’Italia!”. Alla fine della guerra, dopo Restagno e Vaselli, che fu il primo presidente giallorosso ad “appiccicarsi” con i tifosi, tornò Sacerdoti, rimpatriato al termine del conflitto e richiamato per rilanciare il club precipitato in B.
Il suo successore, Anacleto Gianni, acquistò Cudicini, David, Zaglio, Selmonsson (dalla Lazio), poi Manfredini, che arrivò col suo “piedone” ben visibile sulla scaletta dell’aereo. Lojacono e un “late” Schiaffino. Gianni, ribattezzato “Anacleto Quinto”, fu il primo presidente a vincere un titolo in Europa (la Coppa delle Fiere nel ’61). Putroppo è rimasto l’unico (il Torneo Anglo-Italiano non conta…).
Francesco Marini-Dettina vinse la prima Coppa Italia giallorossa ma divenne famoso soprattutto per la leggendaria “colletta del Sistina”: una richiesta d’aiuto ai tifosi che banalmente fallì, come banalmente era stata pensata. Sull’orlo del fallimento, alla Roma pensò Franco Evangelisti («a Fra’ che te serve?»), che vendette il meglio per scongiurare il peggio: De Sisti, Schnellinger, Schütz, Angelillo, Manfredini, Nicolè. La Roma s’imbarco sull’unico cargo disponibile, chiamato “Rometta”.
Vennero Ranucci, Marchini, il quale cedette i promettenti Landini, Capello e Spinosi alla Juventus. Venne Anzalone che in una complessa fase storica fu terzo con Liedholm ma poi rischiò la retrocessione, che solo Pruzzo evitò. La Roma rinacque con Viola, al quale bastò guardarsi allo specchio per riconoscersi in Boniperti. E sfidò lo specchio. Fu la Roma di Falcao, Conti, Pruzzo e Di Bartolomei, del secondo scudetto e della finale di Coppa dei Campioni.
Epoca che si concluse, di fatto, con un terzo scudetto conquistato e perso (’86) e con la cessione, l’anno dopo, negli ultimi minuti disponibili, di Ancelotti al Milan. Dell’era Totti sappiamo più o meno tutto. Speriamo che Friedkin non si spaventi. Ma speriamo anche gli raccontino cos’ha fatto Sensi per la Roma: si è svenato.
FONTE: La Repubblica – E. Sisti