L’auspicio più condivisibile – almeno credo – è che il futuro cominci subito. Prima ancora dei nomi l’importante è che ci sia la consapevolezza delle scelte che vengono fatte, con uno sguardo che avvisti il fine ultimo e che quindi sia capace di superare gli ostacoli che naturalmente si frapporranno alla sua realizzazione. La stagione è sostanzialmente finita all’Old Trafford. Resta una partita vera da giocare in campionato e quella di ritorno con “questi” che va affrontata con dignità. Oddio, ogni partita della Roma andrebbe non onorata, ma santificata, pure le amichevoli, però si è capito da un po’ che queste sono diventate (nei fatti) chiacchiere vuote. Forse se ci fossero stati gli stadi aperti gli innamorati della Roma avrebbero (nei fatti) fatto vedere che significa tifare per la Roma e basta. Cantare per la Roma e basta. Essere della Roma a prescindere. Ma è un mondo che non esiste. Quindi parlare di futuro, reclamarlo, non solo si può ma si deve, per portare di corsa via i tifosi da questo presente. Solo che oggi pure il futuro sembra solo una parola. E non solo perché sono tre anni che è l’anno zero.
Oggi solo una parola non è una parola: il dolore che prova il tifoso della Roma dopo Manchester. Personalmente è così. Quello vince sul futuro. Non si tratta di sconforto, di mettersi dalla parte del problema e non della soluzione, il futuro deve iniziare, per forza, per dovere, per amore, per rabbia, per programma, semplicemente per il tempo che passa inizierà. E passerà anche questo dolore come passa (quasi) sempre. È qualcosa di più simile all'”oggi voglio stare spento” solo che non si tratta nemmeno di volontà: è la realtà. Quella che ci hanno portato via giovedì notte: abbiamo perso quella, non un sogno. Perché il 2-1 all’Old Trafford a fine primo tempo è cronaca, tabellino non il principio di piacere infantile del tifoso: è irreale che finisca 6-2. Vedere il risultato di fine primo tempo fa quasi più male di quello finale, come quell’immagine bellissima dei giocatori della Roma che si abbracciano dopo il secondo gol con Dzeko che dà istruzioni e rassicurazioni a tutti che tutti raccolgono vicendevolmente: sembravamo avere l’attimo che contava e il mondo in mano.
Per come è finita, quella scena soltanto di mezz’ora prima sembra un’altra epoca, sembra un miraggio. Non fa male il sogno che non diventa realtà, fa male la realtà che si trasforma in illusione. Fa male Manchester e quel dolore va ascoltato (per esempio, ripartite dalla faccia avvelenata di Spinazzola in tribuna, e dalle quasi lacrime di Veretout, è lì che c’è il futuro, non nelle parole). Mettete questo tipo di realtà in primo piano. Si legge sui social: “Oggi essere romanisti è difficile”, ma de che?? Oggi è ancora più facile, ‘ste cose ti permettono di far vedere di che pasta sei, quale sia la differenza fra te e qualsiasi altro tifoso di qualsiasi altra squadra del mondo, ‘ste cose so’ nate alle elementari, quando dopo che hai perso una Coppa dei Campioni andavi il giorno dopo a scuola solo per andarci con la sciarpa della Roma.
L’infinito enorme orgoglio di essere romanista. Niente è più appagante come tifoso di vedere lo stupore negli occhi di chi aspetta la tua resa e invece vede uno ancora più convinto e innamorato della Roma. Li cortocircuiti, levi loro tutte le gioie che pensavano di avere in tasca. So piccole le tasche di chi fa i conti ma non vive le cose. Tra i derby che più adoro a livello di tifo c’è quello perso 2-0 nel ’95 con solo la Sud in festa perché je stavamo a festeggia’ davanti agli occhi ancora quello dell’andata. Ma non era una posa, non era una forzatura, non era come quando vince il ragazzino più prepotente su un altro che magari c’ha ragione, era proprio il sentimento di chi considerava gli altri al massimo come teatro, pubblico, sponda del nostro folle innamoramento verso la Roma. Comunque e davvero con i romanisti “non se passava”. Era così. Credo che sarà sempre così per chi è della Roma.
Essere della Roma non è nemmeno facile, ma nel senso che “è” e basta. O lo sei o non lo sei. È come l’amore, o sei innamorato o no, le vie di mezzo sono truffe, patologie, menzogne che ti racconti, nodi che verranno al pettine, come chi si dice disamorato (disamorato della Roma????). Io dico però che questo dolore va considerato anche e soprattutto per costruire il futuro. È quello che sta dietro al nostro orgoglio di essere fieramente romanisti, perché solo fieramente si è romanisti. E non ci si vergogna mai. Mai. Mai. Mai.
È un privilegio. Sono cose facili. È pure facile reagire, ma quello che si è perso giovedì notte all’Old Trafford non deve essere facilmente dimenticato da chi costruirà la Roma: perché il futuro non sia una parola deve essere riempito di sentimenti, anche di questo dolore che sicuramente un giorno sarà passato e avrà cimentato e cementato ragazzini al romanismo e il nostro rapporto assolutamente morboso, malato, splendido, ineludibile, puro con la Roma. Rispettatelo tutti. Non affogatelo nemmeno in frasi stereotipate, (“quando vinci sei di tutti quando perdi sei solo mia”), che hanno perso per inflazione la loro forza originaria (motivo per cui una volta l’immenso Edoardo De Filippo non chiuse “Napoli milionaria” con la celeberrima “ha da passa’ a nuttata” perché “a forza di dirlo ‘sta nottata non passava mai”).
Quelle frasi per essere vere hanno passato le forche caudine della sofferenza (sportiva s’intende eh, tranquilli infedeli evitate il benaltrismo). Vivetela la Roma sempre. Oggi il dolore può fare da ponte fra il passato e il futuro; bisogna rispettare e coltivare quello della sconfitta, ricordarsi i momenti in cui hai stretto i pugni, in cui non hai dormito, in cui solo per un attimo (ma deve essere stato un attimo) hai urlato dentro “adesso basta!”. Non buttiamoli via a colpi di slogan, né con un futuro affrettato purché un qualsiasi futuro arrivi. Il futuro che verrà nasca dal germe dei nostri sentimenti, (da quella stessa lunga partita che non smettiamo di giocare dall’84 in un modo o nell’altro) non sia fatto in laboratorio e buttato via tanto per… Un “amore così lungo tu non darglielo in fretta”. Oggi è primo maggio, l’anniversario del 2-0 con l’Avellino nel 1983: io so’ 38 anni che voglio essere Ancelotti per correre ad abbracciare Agostino.
FONTE: Il Romanista – T. Cagnucci