A guardare la classifica, più dei gol che ha segnato rischiano di pesare quelli che non è riuscito a fare. Curioso destino quello di Edin Dzeko: nella Roma che da una settimana vive come un lutto il distacco di 7 punti dalla Juventus, l’unico promosso a prescindere è il centravanti bosniaco. Ma paradossalmente, se i suoi 15 gol hanno trascinato i giallorossi a ridosso della Juve (un anno fa era quarta) e ai sedicesimi di Europa League (unica italiana ad aver completato la missione), quando il suo contributo sotto porta è mancato sono venute meno pure le vittorie. Dall’inizio dell’anno la squadra di Spalletti è inciampata perdendo punti nove volte, cinque in campionato, due in Europa League e due nei preliminari diChampions: in nessuna di quelle occasioni Dzeko ha trovato il gol. Una specie di Dzeko-dipendenza che però inchioda le responsabilità di compagni e Spalletti, costretto pure colPescara, stasera all’Olimpico, ad affidarsi a lui.
Per uno strano gioco della sorte, l’allenatore toscano simbolo della rinascita un anno fa dopo l’oscurantismo di Rudi Garcia, è addirittura in ritardo di un punto rispetto al cammino del tecnico francese. Proprio alla 14esima e all’Olimpico iniziò l’anno scorso il collasso romanista: il ko con l’Atalanta aprì una striscia nerissima lunga otto partite con in coda l’esonero di monsieur Rudi. La sua Atalanta Spalletti se l’è messa alle spalle sette giorni fa, del Pescara semmai a uno scaramantico come lui (la barba l’ha lasciata crescere finché la squadra ha vinto, tagliandola soltanto dopo il ko di Bergamo) fanno paura le statistiche: cinque sconfitte consecutive, sei nelle ultime sette uscite e nemmeno lo straccio di una vittoria sul campo, l’unica è arrivata a tavolino. Ce ne sarebbe abbastanza per evocare la legge dei grandi numeri e sperare servano come monito le parole di Totti. Che oltre a far venire il mal di pancia a Pallotta annunciando di essere pronto a restare un altro anno, ha marcato la differenza tra prima e seconda: «La Juve con le piccole vince sempre, noi dobbiamo essere più cattivi». Per una volta, pure l’allenatore è d’accordo con il suo capitano: «Ma la cattiveria non si può allenare». Insomma, o la tiri fuori da te o ti rassegni.