“Quando il medico del pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito di Roma mi ha chiesto chi dovesse avvertire della mia famiglia, gli ho detto di chiamare mia madre. Mi aveva investito un’auto che poi era fuggita. Mi aveva agganciato e sbattuto contro una macchina parcheggiata. Ero rimasto a terra, con la faccia sull’asfalto. Ricordo che avevo molto freddo, tremavo e che un carabiniere mi coprì con il suo cappotto. Al dottore diedi il numero di mamma, 3381270. Lui mi corresse: “063381270”. Mica chiama da fuori Roma, obiettai. Lui mi guardò, sorpreso.
Gli avevo detto come mi chiamavo, Luciano D’Adamo, e che abitavo a Monte Mario. Gli avevo dato il mio anno di nascita, 11956. Tutto perfetto. Avevo ventitré anni e volevo uscire presto, non avevo contusioni gravi ma solo un po’ di confusione in testa. Sarà la botta, pensavo. Il medico mi chiese se ero sposato. Gli risposi che lo avrei fatto quattro mesi dopo, il 20 luglio. La mia fidanzata ha diciannove anni, aggiunsi. Lui alzò lo sguardo, sorpreso, dalla cartella clinica e sorrise, “Hai capito? Caspita, complimenti”.
Non comprendevo cosa diavolo ci fosse da ridere. Poi mi disse che c’era una persona che voleva vedermi. Pensavo fosse mamma. Invece entra una signora che mi dice “Ciao Luciano, come stai?” E mo’ questa chi è? Guardo il medico, interdetto. Lui guarda lei, lei guarda lui. Ci guardiamo, ma è tutto strano. Lui le fa cenno di uscire e mi dice che si erano sbagliati di stanza. Obietto che mi aveva chiamato Luciano. Ma lui pronto ribatte che c’era un altro ricoverato, coincidenza, per incidente e che si chiamava proprio come me. Strano, ho pensato.
Dopo un po’ entra un ragazzo che, tutto agitato, mi dice “Ciao papà, come va?”. Ecco il matto, ho pensato. Avrà avuto trent’anni, come faceva a essere mio figlio, visto che ne ho ventitré? Tira fuori dalla tasca un coso su cui aveva delle foto che mi mostra. Non ne riconosco nessuna, non capisco chi sia e di cosa mi stia parlando. Mi chiedo solo dove sia il rullino di quella macchina fotografica così miniaturizzata. Forse anche lui ha sbagliato stanza, malato, Luciano. Boh.
Ma il giorno dopo mi fanno muovere e vado in bagno. Passo davanti allo specchio e guardo la persona che compare. E un anziano signore, non io. È un’altra persona. Lancio un urlo, arrivano le infermiere e cercano di calmarmi. Ero terrorizzato, sembrava un film dell’orrore. Mi hanno spiegato che eravamo nel 2019.
La mia memoria è ferma a quel giorno di marzo del 1980 e da lì non si schioda. Certe volte mi rendo conto, ancora oggi, di fare cose da ragazzino. Mi capita di salire, come facevo allora, i gradini a tre a tre e poi di fer-marmi. Non solo perché ho il fiatone, ma perché mi dico, da solo, che non posso e non devo farlo. Quella signora gentile mi aveva spiegato che l’incidente era accaduto quasi quarant’anni dopo quello che io pensavo
Mentre mi parlava io l’ho cominciata a fissare negli occhi e le ho solo detto: “Tina…”. Era lei, la ragazza di diciannove anni dalla quale stavo andando la mattina dell’incidente, almeno del “mio” incidente. Mi ha fatto vedere le foto del nostro matrimonio e piano piano abbiamo insieme ricostruito la mia vita, la nostra vita. .
Poi io, che sono tifoso della Roma, mi sono ricordato vagamente di un rigore in una finale di Coppa dei giallorossi. L’ho descritto a Simone, che era davvero mio figlio, e lui invece ha riconosciuto il “cucchiaio” di Totti in Italia-Olanda. Me lo ha mostrato ed era proprio quello. Ma io non sapevo chi fosse Totti, né come fossero andati quegli europei.
Come non sapevo che la mia Roma avesse vinto due scudetti, peri quali devo avere molto gioito, né che l’Italia si fosse aggiudicata due campionati del mondo. Li ho rivisti, quelli del 1982, esultando come fossero in diretta. Quei giocatori li conoscevo tutti, salvo Bergomi. Ma non sapevo chi fossero Maradona, Messi, Ronaldo, Del Piero… Ma i flash più intensi li ho conosciuti con due nitidi ricordi del parto dei miei due figli, Simone e Marco. Ogni particolare mi è tornato alla mente, li ho rivisti vivendoli, non semplicemente ricordandoli.
La mia memoria è come un juke box, uno di quelli delle estati degli anni Settanta. Metti le cento lire, i dischi girano, girano, finché si ferma-no e uno solo scende sul piatto per essere ascoltato. Quando, uscito dall’ospedale, sono salito in auto mi mancavano le parole.
Le Torri Gemelle, quando c’ero io, le avevano appena costruite… Che orrore. Ma sto ricostruendo ogni cosa. Sono molto curioso. Vado su Google e vedo, capisco. Pensa se, come era un tempo, ci fossero state solo le enciclo-pedie. Io sarei ancora più vuoto. Il portiere della scuola dove lavoro oggi mi ha insegnato a usare la rete e il cellulare e mi piacciono. Non sono felice. Non posso esserlo.
Ho scoperto che mia madre è morta e non ho neanche il ricordo di quando sono andato ai suoi funerali. Uno dei miei fratelli, siamo rimasti in quattro, non l’ho nemmeno riconosciuto. Combatto, ho un buon carattere. Ma ho vissuto solo un terzo della mia vita. Trentanove anni sono nel buio. Ho imparato che solo la memoria è la vita vissuta.
FONTE: Il Corriere della Sera