Dunque, il buon senso non basta. Dunque, come del resto è proprio di questa rubrica, bisogna tornare anche a parlare di calcio. Dunque, ci sono degli aspetti legati ad una partita che afferiscono a letture tattiche di reparto, motivazioni personali, tecnica individuale, tutte questioni che concorrono a determinare il risultato delle gare da giocare. In assoluto non conta, in certi contesti, solo il valore tecnico dell’avversario. Si chiama Serie A per questo motivo, perché teoricamente dovrebbe racchiudere le eccellenze calcistiche del nostro paese e può capitare di trovare ovunque giocatori in grado di marcare una differenza anche con colleghi assai più celebrati, soprattutto se nella partita si sviluppa quel germoglio sul seme gettato inizialmente.
Ecco quindi che Gabrielloni e Nico Paz diventano protagonisti di una serata a suo modo storica che ha mortificato per l’ennesima volta le ambizioni della Roma e dei suoi tifosi. Vediamo dunque di analizzare alcuni punti chiave per capire come le scelte tattiche, i valori individuali o le motivazioni possano incidere assai più del buon senso di mettere il giocatore giusto al posto giusto nel momento giusto.
Fino a qui, infatti, Ranieri non aveva sbagliato una mossa e anche all’annuncio delle formazioni del Sinigaglia si aveva avuto modo di apprezzare la capacità di coinvolgimento di tutti gli elementi della rosa a sua disposizione. Immaginiamo il tecnico immerso nei suoi pensieri: ora che funziona Saud, restituisco fiducia a Celik; il capitano Pellegrini va in campo e mi ringrazia e, ora che è più sereno, lo mando in panchina per confermare anche la fiducia a El Shaarawy; Dovbyk deve ancora recuperare e mi tengo stretto Dybala falso nove; Pisilli si è rilanciato e ha pure segnato e a questo punto mi gioco la carta Le Fée; Hummels mi molla al riscaldamento provo l’all-in con Hermoso, tanto ormai uno vale l’altro. E invece no. Succede invece che le scelte tattiche dell’altro allenatore, l’ambizioso Fàbregas, decidano le sorti della partita più di quelle di buon senso di Ranieri.
Così, inizialmente, il Como per non rischiare di correre a vuoto lungo il campo alla ricerca di un punto di riferimento che l’assenza del centravanti fisso non garantiva, ha deciso di attendere basso la Roma, cominciando con cautela a studiare l’avversario. Ecco quindi che la Roma ha trovato spazi importanti sulle fasce, dove Saud e Angeliño hanno garantito strappi e assistenza al reparto offensivo anche se diverse volte si sono trovati a scansionare l’area alla ricerca di un passaggio che non aveva destinatario perché Dybala si abbassava sulla trequarti a fornire preziosissime sponde ed El Shaarawy e Saelemaekers non trovavano il tempo giusto per gli inserimenti profondi. Qui ha cominciato a maturare nella testa di Ranieri il pensiero di mandare in campo nel secondo tempo Dovbyk, un punto di riferimento più stanziale.
All’intervallo ecco le scelte che hanno cambiato la sfida. Da una parte Ranieri con la sua riflessione basica, mettere un puntello là dove gli sembrava fosse mancato, nell’area avversaria. Dall’altra la scelta strategica di Fabregas, assai più sottile. Ora che la Roma ha un punto di riferimento più riconoscibile, ha pensato, posso provare ad alzare il baricentro senza rischi di smarrimento. Così lo spagnolo ha ordinato pressioni molto più alte e l’effetto è stato immediato.
Roma in confusione, Como in scioltezza. Come spesso accade, è cambiata proprio l’anima della partita. Da una parte la squadra favorita, con una identità mai trovata e dunque psicologicamente fragile, che all’improvviso vede smarrire le certezze e si rende conto che uscire con i tre punti è assai più complicato del previsto, dall’altra la squadra di casa caricata dal profumo dell’impresa, che guadagna metri su metri e riduce così progressivamente il divario tecnico fino a farlo diventare un fattore a proprio favore.
Qui si innestano infatti le considerazioni sulle capacità tecniche dei giocatori della Roma, a volte sopravvalutate. Perché all’improvviso mancano le distanze e per uscire dal pantano bisogna essere veloci e chirurgici, due caratteristiche che mancano endemicamente nell’assetto giallorosso. E quindi si comincia a sbagliare, ad alzare il pallone alla ricerca di una sponda di Dovbyk che non arriva mai (così basta un Goldaniga qualsiasi a controllarlo) e dall’altra parte il Como affonda negli spazi non coperti mentre ogni giocatore sente crescere sopra la propria pelle la Corazza del supereroe nel giorno dell’impresa, quella da raccontare un giorno ai nipotini.
Cosa potrebbe far cambiare l’inerzia che la partita sta così evidentemente prendendo? Un gesto tecnico capace di sparigliare, che sposta all’improvviso l’equilibrio e lo riporta dov’era naturale collocarlo, dalla parte della Roma. L’occasione arriva dopo 30 minuti del secondo tempo, ma Dybala la spreca e subito dopo entra Soulé, che aggiungerà fumo al fumo. Adesso appare chiaro che il punto del pareggio sarebbe benedetto e per ottenerlo, però, bisogna alzare la soglia dell’attenzione, moltiplicare gli sforzi difensivi, aggredire la fase di non possesso invece di subirla, pensando ancora di poter vincere la gara. Ma la Roma oggi questa capacità non ce l’ha e lo dimostra proprio lo schieramento della squadra nell’episodio finale, lo spartiacque che consegna la gara ai comaschi e sprofonda la Roma nella crisi più buia.
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FONTE: Il Romanista – D. Lo Monaco
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