Parlando di Mourinho, non posso che buttarla in filosofia. Come un filosofo, guarda con scetticismo il panorama circostante, lo interpreta, ne fa una sua ragione. La corrente a cui appartiene però non ha un nome, né un principio fondamentale. Il suo lavoro sterza costantemente senza seguire percorsi definiti. Quando parla, quando spiega, si riferisce alla verità. Lui la possiede, la maneggia, la impone, la disturba, la distorce, noi semplicemente la subiamo. Ma che cos’è la verità se non una costante apparenza, si chiedeva un filosofo di professione. E se cosi e, di quale apparenza parla ogni volta il portoghese? La sua è un’evidenza oggettiva solo per se stesso, mentre gli altri non sanno cosa pensare. Chi crede allo Special One, lo segue, chi non ci crede lo discute.
Nella schiera degli scettici si nascondono molti soggetti, pochi quelli che lo contrastano in pubblico, tanti i detrattori nascosti nell’ombra, intimoriti dalla formidabile dialettica del portoghese, fatta di composte suggestioni, iperboliche visioni, richiami costanti alla storia, la propria e l’altrui. Quando lo ritiene necessario (spesso) colpisce gli avversari con scientifica precisione (a volte imprecisa, come un killer vagamente distratto), evidenziandone il punto debole con un sadismo impietoso e sovente eccessivo. Ma tutto quello che dice gli serve per continuare ad allenare non solo la sua squadra, ma tutto quello che gli gira intorno: i tifosi, un presidente, i media, il proprio ego.
FONTE: Il Foglio