L’incantesimo è finito. Il primo processo pubblico alla Roma di José Mourinho si è materializzato in un pomeriggio di novembre con una raffica di fischi: il plotone dell’Olimpico a giudicare senza pietà l’ennesimo passo incerto di una squadra che non ha idee, nemmeno su cosa voglia essere. Come il famoso bicchiere, la Roma non è né piena né vuota.
Disastrosa per 70 minuti, prima di concentrare negli ultimi 20 un numero di occasioni superiore a quelle costruite nelle ultime cinque uscite. Settima, fuori dalla zona Champions, fischiatissima da un pubblico numeroso ed esausto di assistere a spettacoli indegni. Ma anche a 3 punti dal quarto posto che Mourinho ha fissato come target della sua stagione, e con ormai alle spalle i mesi passati senza Wijnaldum, che da dicembre potrà tornare ad allenarsi, e anche le settimane senza Dybala, tornato ieri in tempo per trascinare la squadra a un 1-1 contro il Torino al 94’ — rimontato con Matic il gol di Linetty — che serve a poco.
La Roma ha ormai esaurito il credito: e ne aveva assai, lievitato nell’entusiasmo di vedere un totem come Mourinho a Roma e poi con la conquista della Conference League e ancora in estate con un mercato carico di speranze. L’autunno triste ha prosciugato quella magia nelle attese deluse: la sconfitta col Betis, poi quella col Napoli, e pure il derby. L’Olimpico, sempre saturo di gente, collezionava sold out e sconfitte e s’è intristito vedendo la Roma avvitarsi in una spirale di mediocrità inspiegabile.
Mourinho il suo perché lo ha trovato. “Ci sono giocatori che hanno un livello bassissimo. La luce è Dybala“. Il pareggio contro il Torino chiude il ciclo delle ultime 5 partite con appena 5 punti conquistati: unica vittoria, quella strappata la notte di Halloween a 2 minuti dalla fine sul campo del Verona, ultimo in classifica e ridotto in inferiorità numerica per un’ora. Rimandata ancora la vittoria in casa, che in campionato manca dal 9 ottobre.
Ma il pomeriggio a due facce ha prodotto soprattutto la demolizione dell’umore non di uno ma di due attaccanti. Quello di Abraham, sepolto dai fischi e dalle parole del suo allenatore: “Stimolarlo? Non hai bisogno di motivazione per andare a prendere lo stipendio, no? Quando diventi un calciatore professionista, con milioni di bambini che sognano di fare lo stesso, non hai bisogno di una motivazione esterna“. Quasi un Karsdorp bis.
FONTE: La Repubblica – M. Pinci