Che cosa ha fatto di male la Roma (e quindi i tifosi della Roma), per meritarsi prima «Non so neppure io perché sono tornato» (cit. Franco Baldini, 2011) e poi «Se tornassi indietro non verrei mai alla Roma» (cit. Luciano Spalletti 2017)? La Roma, a scanso di equivoci, dovrebbe essere un punto d’arrivo per chiunque, dirigenti, allenatori e giocatori; e lavorare per questo club dovrebbe essere – per tutti – motivo di vanto, non di rimpianto. Sempre e comunque. Gli stipendiati della Roma, invece, troppo spesso si lasciano andare a recriminazioni che non solo non gli fanno onore (ma questo è un problema loro), ma che non sono neppure in linea con lo stipendio che ricevono a fine mese (però questo per loro non è mai un problema). La sensazione che nella Roma ognuno vada un po’ per conto proprio si fa sempre più forte.
Il presidente Pallotta una volta critica Spalletti ad una radio Usa («Ha sbagliato la formazione», post Roma-Lione) e un’altra lo elogia («Ha azzeccato formazione e cambi», post Milan-Roma), solo casualmente con Francesco Totti (non) protagonista. E sfoggiando, se non altro, un’adeguata cultura tecnico-tattica di stampo inglese. Ci mancherebbe altro, però, che non possa farlo: lui è il padrone. Sarebbe stato giusto, però, che proprio nelle vesti di padrone della Roma avesse azzeccato la strategia per gestire il rapporto tra Spalletti e Totti. Con i due litiganti nelle vesti di suoi dipendenti, con tanti diritti e pure tanti doveri. Invece, nulla è stato gestito e ognuno, come detto, è andato, e va, per conto proprio. Alimentando – tutti, nessuno escluso – con un grosso carico di responsabilità un caso paradossale e reale nel momento più delicato della stagione. Con la Roma impegnata a garantirsi sul campo il proprio futuro, anche economico. Ma alla Roma, ormai è chiaro, non ci pensa (quasi) più nessuno. Tutti sono impegnati a pensare a se stessi, almeno fino al prossimo rimpianto.