Ha traballato, appena un po’, ma alla fine non ha perso la testa, questo va detto. Paulo Fonseca nell’ultimo periodo è apparso molto provato, in difficoltà per ciò che stava accadendo alla squadra, tra qualche pareggio inaspettato, i tanti infortuni e la sensazione, ormai vinto dalla sfortuna, di non poterne uscirne. I bravi allenatori, si va dicendo, si vedono nelle difficoltà, sono quelli che trovano la soluzione.
Quando ti mancano tutti, o quasi, i centrocampisti, o pensi di affidarti a qualche svincolato/stagionato (sic) o il centrocampista te lo fai in casa. Lui ha creato Mancini e su di lui ha ridisegnato la squadra in un 4-1-4-1; un po’ di anni fa Spalletti, sempre in periodo di grande emergenza, ha tirato fuori dal cilindro Totti centravanti e Perrotta trequartista, ma soprattutto quella bella Roma del 4-2-3-1 del 2005. Oggi, Fonseca, ha la forza di andare avanti con quelli che ha e il coraggio di rinunciare a uno tra Rodwell e Buchel, che non verranno tesserati.
AZZARDO Quel coraggio che sarebbe dovuto arrivare dai calciatori, tanto invocato dall’allenatore portoghese, è arrivato da Fonseca stesso, che ha saputo lavorare pure sulla testa della squadra, specie dopo la deprimente partita di Genova contro la Sampdoria. Lì è stato toccato il fondo: zero gioco, zero anima, zero di tutto. Paura, altro che coraggio. «Giocando così non si va da nessuna parte», disse al gruppo il giorno successivo alla sfida di Marassi, Paulo. Per rivedere un calcio logico ci voleva prima di tutto lo spirito, l’anima, il sentirsi squadra, al di là di chi in quel momento non c’era.
E in questo si è appoggiato ai leader dello spogliatoio, a Dzeko, che sta facendo gli straordinari (gioca con la maschera e specie a Genova a rischiato molto), a Veretout, che cresce di partita in partita, sempre più con consapevolezze da leader, a Kolarov, pure lui sta scaricando il polmone, ma dovrà andare avanti ancora. La Roma ha ricominciato un campionato, con un abito diverso. Sia nella partita contro il Mönchengladbach sia in quella con il Milan, già si sono notate le differenze.
L’altra sera si è rivisto pure un buon calcio, con molte occasioni in più create rispetto alla sfida di coppa. Nella fase più critica, Fonseca ha dato una mano pure ad altri calciatori, che sembravano persi. Pastore, ad esempio, almeno quello visto con il Milan, oggi sembra un altro. E’ un giocatore, contestualizzato in un gruppo. Javier va gestito, ma potrebbe diventare una risorsa in più quando rientreranno tutti, mentre adesso è da considerare quasi un elemento indispensabile.
Pure a Trigoria – dopo un anno di dubbi – hanno cominciato a sorridere, ripensando all’ingente investimento fatto su di lui. Ovvio, l’argentino ha mostrato nei mesi precedenti una certa fragilità muscolare, che non lascia tranquilli. Lui ha fatto sapere di aver trovato in Fonseca l’allenatore giusto per risorgere. Il tecnico sta coinvolgendo tutti, vedi il continuo ricorrere ad Antonucci, Santon e nell’ultima partita pure all’esordiente Cetin.
PSICOLOGO Fonseca è stato psicologo ma non solo: ha pian piano sistemato tatticamente la difesa, che appare più solida con Smalling ormai guida del reparto. Adesso si tratta di dare continuità ai risultati, e in questo serve ancora più sacrificio da parte dei calciatori. Udine e poi Roma-Napoli, sei punti per dire di aver passato con successo la brutta nottata. Ciò che sta succedendo alla Roma e quello che si avverte in molti calciatori, si capisce dalle parole di Gianluca Mancini rilasciate a Dazn.
«Il senso di appartenenza è grande e noi giocatori dobbiamo dimostrarlo, bisogna appartenere alla maglia per cui giochi, quella per cui la domenica vai in campo per fare risultato. Bisogna dare il massimo di te stesso per fare bene. La pressione ci deve essere ma deve essere positiva, una pressione per aiutarti a migliorare. Il salto è stato grande, perché Bergamo è più piccola di Roma. Avverto questa differenza, ma la vivo serenamente». Ora si vede, non solo in lui.
FONTE: Il Messaggero – A. Angeloni