Era sicuramente la Vigilia di Natale. Me lo ricordo perfettamente: sarà stato intorno a mezzogiorno. Ero al supermercato. Spingevo un carrello stracolmo di cose e stavo, finita l’annosa ricerca della besciamella – la cui presenza, in vista del pranzo del giorno dopo, è più importante di Babbo Natale, diciamolo – per girare l’angolo dell’ultimo scaffale per immettermi nello spazio davanti alle casse.
E lì, appena svoltato quell’ultimo angolo, con mia enorme sorpresa mi trovai di fronte ad una scena apocalittica: una massa informe di persone e carrelli rendeva impossibile non solo capire se esistesse, o meno, una “fila”, ma anche soltanto provare a manovrare il carrello per lasciare spazio a chi provava, inutilmente, a transitare in quello spazio ormai saturo. Ricordo ancora, con una punta di sconcerto, che, quando, a voce alta, lanciai la famosa domanda “chi è l’ultimo?”, nessuno mi rispose se non, a distanza di qualche secondo, un signore avanti con gli anni che mi mise di fronte alla dura realtà: “sei te”.
Ecco, esattamente questa è stata la sensazione e la situazione che mi sono trovato a vivere una volta raggiunti, intorno alle 18.15 di un giovedì (splendido, ma questo ancora non lo sapevo), i tornelli della Tevere: la “fila” (fila?) si spingeva, a ritroso, verso lo Stadio dei Marmi ed il mio stupore era solo inferiore alla mia preoccupazione di non riuscire ad arrivare, sospinto da quel corpo unico di cui ero diventato necessariamente parte, in tempo utile a varcare i tornelli per essere al mio seggiolino al momento del fischio iniziale (…). Ma quel corpo unico, oltre che muoversi, compatto, in un’unica direzione, manifestava perplessità, speranze e preoccupazioni. Una, la principale, su tutte: Hummels. Perché, venuti a conoscenza dell’undici iniziale, e appreso della sua reiterata panchina, la discussione verteva soltanto sul perché si fosse arrivati a questo.
Si passava – nemmeno ci trovassimo a scuola, il giorno dopo un’assenza, a doverci giustificare davanti al professore – dai generici “motivi di famiglia” ad una non meglio specificata “indisposizione”, fino al più grave (detto, ovviamente, da quello che ne sa sempre una più degli altri: «Con Ranieri hanno litigato») che creava attimi di preoccupato silenzio in tutti gli astanti. Ma certamente non ci spiegava il reiterato impiego di Celik («Una ne fa e cento ne pensa») dopo che, intervista dopo intervista, Ranieri aveva spiegato universalmente dell’importanza di un campione del mondo.
C’era chi provava a introdurre argomentazioni sin qui sempre ritenute paradossali («Allora c’aveva ragione Juric che non lo faceva mai giocà») e chi, viceversa, ribaltava l’analisi («Ranieri ha capito che ha bisogno di staccare la spina e quindi lo fa riposare»). Insomma, tutto ed il suo contrario. Ci sedevamo, quindi, preoccupati del clima dello “spogliatoio”, perché la vicenda Hummels non è chiara; speranzosi, perché più forti; perplessi dall’infortunio del Pichichi, che rendeva necessaria la presenza di Eldor, che «segna sempre quando non serve». I primi minuti rafforzavano in ciascuno i propri convincimenti (…).
Ma era al momento della frittatona che una serie di seggiolini sprigionava tutto quello che aveva dentro: sull’arbitro («Questo è peggio de quell’artro»); sulla difesa poco reattiva («Hanno dormito tutti»); su Svilar, colpevole di essere meno concentrato di un tempo («Non è da lui: ma che c’ha?»); sull’ostruzionismo (davvero fastidioso, va detto) dei giocatori avversari («Adesso, cò questi, da qui alla fine, giochi sette minuti il primo tempo e nemmeno quindici il secondo, vedrai»); e, per non farsi mancare niente, su Ranieri, colpevole di non avere schierato Hummels (…).
Qualcosa ja fatto, ma ce deve fa pace»). Un minestrone di lamentele vaghe, così, senza un riferimento preciso, ma che evidenziavano tutte una chiara esigenza: riprendiamo subito questa partita («Manca ‘na vita: adesso cerchiamo di pareggiare prima della fine del primo tempo») perché stavolta, no, stavolta non è serata da Roma “bella ma sfortunata”, stavolta torniamo a casa contenti. E basta.
Ma dopo quel “basta” la domanda era: chi segna? Ecco, sì, davvero: chi segna? Malgrado qualche speranza si avvertisse su chi dovesse e potesse segnare, nessuno, in quel momento, sapeva che, per avere risposta, si sarebbero dovuti aspettare soltanto pochi minuti. Quei pochi minuti che sono passati da quando Eldor gli ha dato quella prima palla e Koné quella seconda. Perché, dopo quei due passaggi, chi dovesse e potesse segnare è stato evidente a tutti («Tutto facile per lui, pure l’impossibile!»). Ed è stato evidente a tutti che tu, un giocatore così, non puoi perderlo. Non puoi chiedergli di cercarsi una squadra («Io mi domando davvero come sia stato possibile»). Non puoi preoccuparti di evitare che gli scatti il rinnovo del contratto («Se penso che non volevano giocasse per paura del rinnovo»).
Non puoi pensare, semplicemente, di poterne fare a meno («Non è il più forte della squadra: è lui la squadra»). Perché, se solo ti volti indietro, ti rendi conto di cosa e quando ha segnato («Ti ricordi il Feyenoord e Budapest?»), di come ha segnato («Fa solo gol meravigliosi, pensa a quello al Torino»), di come meriti, lui sì, di indossare quel numero («Francesco glielo dovrebbe dare»). Ma non perché, indossandolo, se ne appropri a discapito di qualcun altro (meravigliosa sintesi: «Nella Roma il 10 non si sottrae, si somma»), ma perché ne perpetui la tradizione e l’importanza.
Quel numero, difatti, era sulla maglia di De Sisti, di Agostino, del Principe. Quel numero era sulla maglia del più grande. Quel numero deve continuare a vivere in campo. Ed è giusto che lo faccia sulla maglia di un calciatore («Pensa che carica avrebbe se gli dessero la dieci») che ci sta facendo vedere cose che ci faceva vedere Francesco e forse nessun’altro. In attesa che ce ne faccia vedere ancora delle altre. Da qui a fine maggio. Perché un giocatore così merita di vincere un trofeo. E noi con lui. E basta con Dybala che forse, però, non è che mi convinca tanto. Basta. È il più forte. È arrivato il momento di farsene una ragione. (…)
FONTE: Il Romanista – F. Vecchio