Le due società hanno preso a flirtare da diversi anni in qua, da Rosella Sensi in poi, alleanze di potere, strategie di palazzo, tresche di corridoio, ma possono trescare quanto vogliono, la pancia di Roma-Juventus resta quella di sempre: un brontolio viscerale di cose maldigerite, ricordi indelebili, umori, persone, storie e filosofie che più avverse e diverse non si può. Nate per essere rivali.
Detto che il gol di Turone non è più nemmeno un luogo della memoria, ma solo un fin troppo rimasticato luogo comune, andiamo all’osso. Giallorossi e bianconeri, l’estremo del colore e l’estremo della negazione del colore, si rendono conto di quanto sia naturale detestarsi solo il giorno in cui si ritrovano a condividere lo stesso spazio.
Prima di allora, nemmeno si vedevano. Separati dalla stessa vetrina che tiene distante l’orfanello di Chaplin dal mondo visibile ma irraggiungibile del lusso. Prima ancora, bisogna riandare là dove solo pochissimi mohicani di campo Testaccio possono testimoniare, agli anni di Masetti, Bernardini e Volk, dei presidenti Edoardo Agnelli e Sacerdoti. Sfide al calor bianco.
È grazie al genio luminosamente arrogante di Dino Viola che le ultime generazioni dei lupi tornano ad arrampicarsi fino ai piani alti, la suite dei vip dove si banchetta con il caviale o con l’attesa del caviale. Dove si vince, per Giove. Anzi, dove, udite udite plebaccia, “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”. Concetto fesso, nel senso di vuoto.
La reiterazione illimitata del godimento alias successo non funziona, alimenta il tedio dei vincenti e la frustrazione negli sconfitti. Umilia l’attesa e ammorba la trama. In sintesi mortifica il gioco, banalizza la giostra.
Nessuna cosa vivente sopporta di vincere a oltranza. Di veramente memorabile nella labile storia degli umani, anche e soprattutto dei vincenti, ci sono solo le sconfitte. La sconfi tta assomiglia alla vita molto più della vittoria e, più atroci sono, più restano memorabili là dove la pelle è anima.
FONTE: Il Corriere dello Sport – G. Dotto