Nella sua prima avventura giallorossa – dal 2005 al 2009, conclusa con due Coppe Italia, una Supercoppa italiana, due premi come miglior allenatore della stagione e la considerazione condivisa di aver prodotto un calcio spettacolare – Luciano Spalletti aveva introdotto a Trigoria una parola d’ordine: normalità. Un concetto che conteneva in sé il comportamento in campo e fuori dal campo, la scelta di calciatori che avessero valori tecnici ma anche morali (il primo a essere fatto fuori fu Cassano) e la fede incrollabile nel gioco di squadra. La Roma di Spalletti trovò la sua massima espressione con il 4- 2-3-1 e con Totti «falso nueve», un centravanti di manovra che apriva gli spazi per le incursioni dei compagni ma che sapeva anche segnare in proprio (Scarpa d’oro nel 2007, con 26 gol in campionato). Tutto si poteva dire di Spalletti tranne che non avesse le idee chiare. Ritornare nei posti di un tempo – soprattutto se si è fatto bene – è sempre un rischio. Zdenek Zeman, per esempio, lo ha vissuto sulla propria pelle nella seconda stagione della presidenza americana.
Dopo l’eccellente percorso del girone di ritorno dello scorso campionato (14 vittorie, 4 pareggi e una sola sconfitta in campionato dopo l’esonero di Rudi Garcia), Spalletti ha potuto iniziare questa stagione dall’inizio, concordando preparazione, amichevoli, mercato e strategie societarie. È per questo che stupisce il cammino di questo inizio: una sola vittoria (4-0 all’Udinese), due pareggi (1-1 con il Porto nell’andata del preliminare di Champions, 2-2 a Cagliari) e una rovinosa sconfitta (0-3 in casa contro il Porto nel ritorno). Stupisce ancora di più che i due registi – Pjanic e Keita – non siano stati sostituiti. Nessun centrocampista – nemmeno Paredes, che Spalletti ha incautamente definito più forte di Pjanic, così come il d.s. Sabatini aveva accostato Florenzi a Dani Alves – ha caratteristiche simili. E così la Roma si trova spesso, per ammissione del suo stesso allenatore, ad avere una squadra che ha problemi nel gestire la palla in uscita dalla difesa e, soprattutto, non sa congelare le situazioni di vantaggio, come quelle che sono capitate nelle trasferte di Porto e di Cagliari. In difesa Spalletti ha già utilizzato dieci giocatori diversi (Alisson, Szczesny, Florenzi, Bruno Peres, Manolas, Vermaelen, De Rossi, Fazio, Emerson Palmieri e Juan Jesus), cambiando anche in corsa lo schieramento da 4 a 3. Troppo. Per avere una squadra duttile bisogna lavorare come forsennati sui movimenti dei vari reparti e per fare questo c’è bisogno di tempo. Ma il tempo, nel calcio italiano, non c’è. Tanto meno a Roma.