La vecchia GT2000 rossa alla James Bond è la prima cosa che noti, entrando nella sala esposizioni del quartier generale del gruppo. Subito dietro, c’è la foto di un uomo sorridente in giacca e cravatta: Dan Friedkin. Alle spalle, una parete bianca, ma idealmente potrebbe esserci una frontiera nuova: decine di potenziali investitori americani pronti a sbarcare in Italia. Se Jim Pallotta, Joe Tacopina, Joey Saputo, Paul Singer e Rocco Commisso stanno cambiando il dna del nostro calcio, Friedkin potrebbe compiere l’ultimo passo.
Il motivo non è sentimentale, ma finanziario: il californiano cresciuto in Texas è sconosciuto a Houston, ma molto seguito nel mondo degli affari. Le acrobazie di pilota d’aereo alla Bond interessano poco, lui in questo momento ha una «reputation» altissima nel campo di grano dove crescono i dollari. Ammirano la sua fortuna. E l’intuito. E’ riuscito a moltiplicare il fatturato in tutti i settori in cui si è lanciato, dall’importazione di Toyota ereditata dal padre, Tom, ai resort, i villaggi vacanze, fino al cinema, dove fa tutto, produttore, distributore, regista, pilota, stuntman. Un Dom Perignon del ‘53, grazie.
Il gruppo spazia in molti campi e copre tre continenti. Dettaglio che tornerà utile nella seconda parte di questa storia. Houston è una città sdraiata come Roma, ma Friedkin ha fretta di vivere. Accelera, sorpassa, guida. Chi gli riconosce proprietà talismaniche dice: se ha deciso di investire nel calcio, vuol dire che ha visto in Italia quella pepita che il calcio americano non sa trovare. Allora, meglio la Samp del Cincinnati, il Genoa del D.C. United, la Salernitana dello Sporting Kansas City.
L’arrivo al Venezia dell’ex direttore di Wall Street, Duncan Niederauer, è solo l’ultimo tassello del mosaico. «Tolta la Juventus – spiega un broker di Manhattan che lavora per uno studio specializzato in acquisizioni societarie – tutti i club di Serie A sono in vendita se il prezzo è giusto».
Il manager In un mondo in cui molte sardine si atteggiano a balene, Friedkin continua a vivere in modo discreto. La sua villa a River Oaks è l’unica con i cancelli aperti, mentre la sede del Gruppo, lungo la Enclave Parkway, non ha accessi blindati. Alla reception accolgono gli ospiti con gentilezza e una certa disinvoltura, probabilmente un marchio hollywoodiano imposto dal capo.
«Però il gruppo Friedkin non può fare nessun commento. Aspettiamo», taglia corto un dirigente, Mark J., camicia a quadri e badge sul petto. La due diligence è «in progress». In tutti gli affari a questi livelli, si procede su un binari prestabiliti: una volta fissate le cifre, queste vanno al board of directors del gruppo acquirente, che prende la decisione finale. In questo caso, Friedkin. Solo a quel punto, se tutto dovesse andare bene, lui e Pallotta si incontreranno e si stringeranno la mano. Poi le parti concorderanno il comunicato con le cifre da consegnare ai mercati.
Le novità potrebbero arrivare a breve, ma nessuno è in grado di dire esattamente quando. Di certo emerge il peso che il texano potrebbe avere nel nostro campionato: lui vorrebbe trasportare la Serie A in un sistema globale, al pari della Premier, in cui unire calcio e marketing, intrattenimento e show, dal calcio al cinema ai viaggi fino al turismo organizzato. La chiamano «cross fertilization»: mettere idee e conoscenze diverse per avviare una innovazione.
E Friedkin appare l’uomo giusto. Le proprietà americane hanno già potuto saggiarne la determinazione: l’anno scorso, pochi mesi prima dell’avvio della trattativa con Pallotta, i manager del texano hanno incontrato i dirigenti di alcuni club, analizzato dati su stadi, diritti tv, andamento del brand. Obiettivo: «enlarge the cake», ampliare la torta.
Il proprietario della Fiorentina, Rocco Commisso, non vede l’ora di avere un partner visionario e forte, in quella che è diventata la vera missione di tutte le proprietà straniere: azzerare il sistema, fatto di correnti e presidenti che si muovono come canne al vento. Vogliono creare un commissioner sul modello Nba o Nfl di football in cui la Serie A sia formata da avversari sul campo, ma soci fuori.
FONTE: Il Corriere dello Sport