Notte piena di luna romanista stasera all’Olimpico. Se hai molti cerchi all’interno del tuo albero lupoide, avrai anche molte tacche e molte nottate come questa e, inutile dirlo, quanta micidiale sofferenza. Ma, tanto per anticipare i cretini che sono pronti a spiattellare la storiella insulsa per anime insulse della volpe e dell’uva, diremo che la sofferenza non è altro che il modo più intenso oltre che esatto di stare al mondo.
Che ci offre tante gag e tante comiche, basta guardarsi intorno, proprio per regalarci qua e là il confettino che si dà nel circo all’elefante triste. La vita è sofferenza diceva un signore che se ne intende, sofferenza è la sconfitta, sofferenza è la malattia, sofferenza è la poesia che non viene o viene storpia, sofferenza è l’attesa della donna amata, sofferenza è la donna amata stessa, sofferenza è l’addio, sofferenza è l’assenza. Sofferenza è persino la presenza, sapendo che seguirà l’assenza.
Sofferenza è la Roma. Non perché la Roma sia niente di speciale, ma perché speciali (e vorrei dire unici, ma mi trattengo per pudore) i suoi tifosi. Capienti e sapienti al punto che in loro la sofferenza è la stessa cosa che il godimento. Masochisti? No, illuminati. Novanta o cento minuti di cuori alla brace sono un pieno di felicità, e chi se ne frega, ma sì, comunque vada il barbecue. (…)
Ma, fateci caso, il tifoso vorace e verace dà il meglio di sé quando può bruciare nel proprio stesso rogo, non avendo a disposizione ogni volta colli, siepi e Silvie per scrivere versi destinati ai posteri, e contentandosi di portare a casa il proprio corpo stremato da troppe, inutili e per questo bellissime emozioni, nell’indecifrabile stordimento dei vuoto che segue al pieno.
Stiamo divagando? No, stiamo al centro della cose. Dei sessantamila romanisti che stasera metteranno il loro muscolo cardiaco a disposizione dell’evento, qualunque cosa accada. La festa è garantita, la tristezza pure, secondo Vinicius de Moraes, romanista suo malgrado, che canta “per favore vai via” per dire in realtà “ti prego fammi compagnia”.
Ci voleva uno come Josè Mourinho, un’intelligenza così moderna e così rivolta al passato come la sua, per far da ponte tra il mondo arcaico dei tifosi, scandalo che si ostina a sopravvivere e il calcio di oggi, il calcio che inevitabilmente sarà, dove c’è spazio per il grottesco saperci fare delle strategie economiche e gli esatti capoversi del business applicato. Nel multiverso pare, casomai, più che nel verso.
Prima o poi Josè dovrà ammettere, se non a noi a se stesso, che il capolavoro della sua storia di allenatore si sta consumando qui nella città dei Cesari, per quello che accadrà e vibrerà stasera, al di là del risultato, ma ancora di più per i sessantamila il giorno della Salernitana o quello del Bologna, a smiagolare un calcio ben poco avvenente. Josè, se non lo sa comincia a saperlo, è finito là dove il destino doveva prima o poi portarlo.
Fuorviato, forse, anche lui all’inizio dalla domanda: ma dove sono capitato? Per arrivare a rispondersi che c’era anche qui una grandezza da contemplare, non quella dei grandi giocatori, dei Cristiano Ronaldo e dei Drogba, ma quella dei grandi tifosi. A cui lui ha saputo parlare dal primo giorno, come nessuno aveva mai fatto prima.
Notti magiche? Più volte tragiche, ma sempre bellissime. Inutile dire Liverpool, il paradigma delle notti romaniste, nel fondo del cuore di tenebra, ma quante altre, belle o brutte, ma sempre belle, dove si perde e però si vince. Così alla rinfusa, Bayern Monaco, Arsenal, o altre dove si vince e basta, Colonia e Broendby. (…)
FONTE: Il Corriere dello Sport – G. Dotto
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