L’autunno è un imbuto crepuscolare che tende a travolgere i caratteri più malinconici. Lorenzo Pellegrini si sta abituando a questo mood imbronciato, da Mourinho a Juric passando per tre mesi di ritrovata felicità con De Rossi. Capitan discusso, tra Roma e Nazionale, attraversando delusioni ed espulsioni. Stasera torna titolare a Verona, dopo la panchina «per scelta tecnica» contro il Torino, e ha fretta di spiegare ai contestatori che il vero Pellegrini, il vero Lorenzo, non è quello che stiamo vedendo. Non è un caso che il rendimento insoddisfacente suo e di Dybala, che si è svegliato giovedì dal letargo, coincida con il momento di confusione della squadra.
I fischi gli fanno male, perché assomigliano a quei rimbrotti severi che arrivano dalla famiglia. L’amore genera aspettative. Ma Pellegrini soffre soprattutto perché non è ancora riuscito a trascinare i compagni fuori dalla palude. Soffre per la Roma, che è undicesima in classifica e osserva con il telescopio il pianeta Champions. Già lo scorso anno, in cui però era stato penalizzato dagli infortuni, stava giocando male.
Segnò comunque un gol importante contro il Frosinone, prima di arrivare alla resa dei conti con Mourinho e alla rete decisiva contro il Napoli dopo essere stato declassato. Adesso è a quota zero. Zero reti. E zero assist, se non vogliamo definire tale il passaggio orizzontale per Cristante in Roma-Venezia. E’ il simbolo di questa squadra, in ogni senso. Smarrita, confusa, grigia.
Se anche Spalletti, che gli ha assegnato la numero 10 della Nazionale, osserva che «Lorenzo è sotto livello», è arrivato il momento di reagire: Pellegrini non può accettare a 28 anni di vivacchiare a metà classifica, sospeso tra il mondo dei mediocri e il gotha degli ambiziosi. Ha ancora molto calcio da vivere in qualità di protagonista grazie al talento e alla personalità che gli ha regalato madre natura. Solo che bisogna accelerare. La stagione passa e il tempo pure.
Lui intanto ha già messo due volte la faccia in pubblico, per aprire il cuore e confessare il disagio. La prima in Svezia, per puntualizzare che nessuno lo aveva interpellato quando si è trattato di decidere l’esonero di De Rossi. La seconda a Firenze, per specificare «il problema organizzativo» nato dopo il cambio di allenatore, la transizione da un certo tipo di calcio a uno «molto diverso». Sono stati due interventi decisi, professionali, di un calciatore che non capisce bene dove voglia andare la Roma dei Friedkin. (…)
Ora come tanti, come gli stessi tifosi, si sta domandando quali obiettivi possano essere raggiunti in una società svuotata dai dirigenti: i Friedkin sono negli Usa, l’a.d. è stata dimissionata, un direttore tecnico non c’è, l’allenatore passeggia continuamente sul filo dei trapezisti per non cadere. L’unico interlocutore dei giocatori è il mite Florent Ghisolfi, direttore sportivo della scuola ermetica che ha provato a scuotere la squadra (in francese con l’interprete…) assicurando che De Rossi non sarebbe più tornato. (…)
FONTE: Il Corriere dello Sport – R. Maida