Si somigliano e anche tanto. Basta mettere vicino la Roma e Spalletti per rendersi conto di quando siano simili sia nelle giornate di gloria che in quelle più buie. Sarebbe sufficiente dire nel bene e nel male, passando dalla vittoria più convincente alla sconfitta più allarmante. I giocatori invitano l’allenatore sull’altalena, coinvolgendolo più di quanto si possa pensare. E anche il tecnico ricambia, senza fare distinzioni. Su e giù, come se niente fosse.
UOMO SOLO AL COMANDO – Lucio è uno che ci mette sempre la firma. Sia sull’impresa che sulla sbandata. Ogni sua squadra ha sempre quell’impronta significativa che appartiene solo a lui. Non si nasconde, insomma, tenendosi stretto il suo ruolo di punto di riferimento del gruppo e di comandante unico. Il palcoscenico se lo prende per sé. Prima, durante e dopo. Quando c’è da tirare le somme, si presenta sempre a petto in fuori. Per ricevere gli applausi e i consensi, come è successo spesso in questa stagione. O per incassare le critiche e gli appunti, anche per far da schermo al suo spogliatoio. I picchi, dal 16 agosto a sabato sera (25 partite, tra serie A, Champions ed Europa League: 14 vittorie, 6 pareggi e 5 ko), sono il successo straripante al San Paolo contro il Napoli e quelli equilibrati e di sostanza all’Olimpico contro la Lazio e il Milan. I flop, invece, quelli in casa nel playoff di ritorno contro il Porto e allo Stadium nello scontro diretto contro la Juve.
AMARO DEL CAPO – Il 2° posto in campionato, più della qualificazione ai sedicesimi di Europa League con il primo posto nel gruppo E, è il risultato stagionale in cui è riconoscibile il lavoro di Spalletti. Che, però, non è stato altrettanto lucido nelle 2 gare fondamentali, almeno fin qui, per la Roma. In entrambi i casi ha sorpreso la piazza, la società e la squadra. Lui, profeta della normalità da riportare a Trigoria già all’alba della sua prima esperienza sulla panchina giallorossa, ha cambiato la strada vecchia per la nuova. E sempre nella notte della verità. Si è ritrovato, però, contromano ed è andato a sbattere. Contro il Porto ha perso la possibilità di partecipare alla fase a gironi della Champions; contro la Juve è scivolato a meno 7 dalla vetta della classifica. La mossa fatale del 23 agosto non è troppo differente da quella del 17 dicembre. Leit motiv: il giovane titolare nella partita più delicata. Nel playoff arretrò De Rossi al centro della difesa (lasciando fuori Fazio), per sostituire lo squalificato Vermaelen, e lanciò dal primo minuto Paredes da regista, richiamato in panchina al minuto 42. Entrò al suo posto Emerson, per aggiustare la difesa dopo l’espulsione di De Rossi. Sabato in campionato ha aspettato la Juve per mettere Gerson esterno alto, ruolo che piace al calciatore e non al tecnico che, come ha raccontato due settimane fa in conferenza stampa, non lo ritiene adatto per giocare in quella posizione. Fuori dopo il primo tempo, regalato all’avversario, proprio come in coppa. In entrambi i casi le spiegazioni post partita non hanno convinto almeno quanto le mosse in partita.
LEZIONE DOPPIA – Spalletti, proprio dopo le cadute, sa dare il meglio di sé. La Roma, in questi 4 mesi, solo dopo la sconfitta interna contro il Porto non è riuscita a vincere la partita successiva: 2 a 2 al Sant’Elia contro il Cagliari, facendosi rimontare 2 reti. È, invece, ripartita con convinzione dopo gli altri 3 ko subiti in trasferta contro la Fiorentina, il Torino e l’Atalanta, segnando sempre 4 gol all’Olimpico, rispettivamente 4 a 0 contro il Crotone, 4 a 0 contro l’Astra Giurgiu e 4 a 1 contro il Viktoria Plzen. Spalletti, in campionato, ha vinto le ultime 12 gare giocate in casa (le ultime 3 dello scorso torneo e le 9 di questo, derby compreso). Ma stavolta, nel consueto incontro con i giocatori nel day after, ha dovuto argomentare in modo più approfondito la sua lettura del match di Torino. Ha chiarito al gruppo che la Roma esce ridimensionata solo dalla classifica. Perché ha comunque sfidato la Juve a viso aperto, costringendola alla difesa e al contropiede negli ultimi 20 minuti. L’inseguimento alla capolista non deve dunque finire qui. Anzi, aiuta. Serve soprattutto per blindare il 2° posto, ora che il Napoli e la Lazio si sono avvicinate: solo 1 punto di ritardo (e Sarri ha pure il miglior attacco: 37 gol). Il toscano ha cercato di essere convincente per risollevare i più sfiduciati. E anche quelli che, sentendolo parlare a caldo e in pubblico nella pancia dello Stadium, hanno pensato che Lucio abbia bocciato caratterialmente gran parte dei suoi interpreti. «La Juve è grande, noi ancora no. Dispiace dirlo, ma è così». Lo ha detto, con sincerità e orgoglio, Szczesny. Che ha fatto il distinguo pure tra «uomini» e «ragazzini». Chissà se pensando anche alle scelte di Spalletti nelle sfide cruciali finite male.