Soltanto poche ore prima di vedere la sua Roma frantumarsi come una statua di ghiaccio, José Mourinho aveva sfidato il gelo di Bodo sfilandosi la tuta per mostrare il petto, come Superman. Lo è stato per anni, quando gli esoneri non erano che opportunità di vincere altrove. Oggi questo gesto goliardico sembra una sfacciata sfida a un destino che 24 ore dopo s’è preso una spietata rivincita: sei gol in carriera non li aveva mai presi. La parabola è una curva che sale fino al suo vertice, probabilmente con il triplete dell’Inter, ma che da quel punto in poi discende.
Giovedì sera ha raggiunto finora il suo punto più basso, che proietta l’ombra dei dubbio sui trionfalismi che avevano accompagnato lo sbarco romano di Mourinho. Che fine ha fatto la figura da capobranco, che aveva accompagnato i suoi anni migliori, quando gonfiava il petto da supereroe per difendere i giocatori dal “rumore dei nemici”? Mentre lo spogliatoio romanista ribolliva in un confronto acceso tra i calciatori, José perdeva i resti della squadra, la divideva in due gruppi e davanti alle telecamere ne faceva a pezzi la metà. Apparentemente, il tentativo di trovare un colpevole liberandosi della responsabilità della figuraccia. Chi lo conosce, però, pensa a una strategia diversa.
“Leadership conflittuale” la chiamano, è la sua ricerca di ostilità col gruppo per suscitare una reazione, che stimola chi ha la forza di reagire e demolisce senza appello chi quella forza non ce l’ha. Funzionava con gente come Cambiasso, Stankovic, Maicon e Zanetti, certo non ha funzionato al Tottenham. Alla Roma Mourinho ha trovato entusiasmo, ma non ha avuto tutto quello che ha chiesto. Ha avuto molto, però.
Il potente Abraham per 40 milioni, portiere 33enne Rui Patricio per 11 e una proprietà che ha esteso ieri l’aumento di capitale da 210 a 460 milioni, esponendosi a un esborso mostruoso. José ha dato altrettanto? Qualunque giudizio sarebbe prematuro. Contro Napoli, Cagliari e Milan ha una missione: scacciare l’ombra del fallimento dall’orizzonte suo e della Roma. Per non alimentare la smania di chi non vede l’ora, e da anni, di celebrare il suo funerale sportivo.
FONTE: La Repubblica – M. Pinci