Lo riporterei alla Roma anche solo per fare il contrario di quello che fece, o fu spinto a fare dai suoi delatori, Jim Pallotta. Lo rivorrei a casa (sua) perché Totti della Roma è il senso: ne conosce gli equilibri, le singolari dinamiche, i rapporti di forza, le debolezze congenite, le sfumature, il linguaggio, i circoli (in particolare quello che conta), il popolo. Virus o non virus, se fossi Friedkin o il romano Fienga, cresciuto dalle parti del Gianicolo, l’invito per un caffè lo formulerei al più presto: eviterei così di far passare dieci anni, come è accaduto al Milan con Maldini, prima di rimettere al proprio posto – ma con un ruolo operativo – la bandiera.
Da un paio di anni assistiamo alla progressiva deromanizzazione della Roma: secondo Franco b (e altri) il limite principale della società (ma potrei usare termini più crudi) risiedeva proprio in Totti e De Rossi, i quali – carismatici, amati e perfettamente inseriti nel tessuto cittadino – avevano il potere di condizionare scelte e comportamenti non soltanto dello spogliatoio. L’ho pensato anch’io prima di rendermi conto che il senso di appartenenza, o di doppia responsabilità, tanto invocato da altre parti e che per anni ha consentito proprio al Milan di dominare nel mondo, per la Roma è un valore irrinunciabile.
Sto parlando di un club che in novantatré anni ha vinto solo tre scudetti e tutti e tre con un forte tratto romano: Amadei, Di Bartolomei, Bruno Conti, Totti. Sto parlando di una Roma che ha la necessità di riconoscersi quando si guarda allo specchio. Certo, per vincere non bastano i campioni di famiglia, ne servono anche altri, e occorrono progetti seri, investimenti, competenze accertate, un’ambiziosa idea di crescita non abbandonabile dopo le prime, inevitabili cadute.
Ho letto con molto interesse l’intervista di Paolo Condò su Repubblica e ho avuto l’ennesima conferma che Totti l’istintivo si è raffinato, ha perfettamente assimilato gli elementi di comunicazione trasferitigli anni fa da Maurizio Costanzo: tocca le corde giuste, al battutismo romano, del quale è accademico, alterna sostanza, verità e spiegazioni; elementare ma efficace, ad esempio, il riferimento al Bayern – il cui motto non a caso è Mia san Mia, ovvero Wir sind Wir, Noi siamo Noi – che negli ultimi vent’anni ha costruito i trionfi anche attraverso Beckenbauer, Hoeness e Rummenigge. Francesco risulta meno convincente quando aggira l’ostacolo dell’eventuale conflitto di interessi che comporterebbe la presenza della sua agenzia di calciatori. Dice infatti: «… in Italia posso fare solo scouting e quindi i rapporti con i club li cura il mio socio, i ragazzi si aspettano di parlare con un procuratore, invece ci sono io, e sul momento restano a bocca aperta». Dovrebbe scegliere. Lo scouting sarebbe contemplato nel suo ruolo: cercare nuovi talenti, sì, ma per la Roma. Ve lo immaginate se Totti scoprisse un altro Totti? Se l’Imperatore trovasse un successore?
FONTE: Il Corriere dello Sport – I. Zazzaroni