Ci sono eventi che non ho mai dimenticato. Ci sono eventi che mi rimandano al ricordo preciso del momento e del luogo in cui sono venuto a conoscenza di quel particolare accadimento. È il primo pomeriggio del 19 gennaio del 1991, e questo è proprio uno di quei momenti, che ancora rimangono scolpiti nella mia memoria. Mi trovavo come accadeva spesso insieme al mio inseparabile amico del cuore, abitavamo nello stesso palazzo di una periferia di Roma, ed eravamo insieme nella piccola ed angusta cucina di casa sua a vedere la TV, lo ricordo bene, e sul televideo scorreva la notizia della scomparsa dell’Ingegner Dino Viola, il grande Presidente della Roma che ebbe nel 1983, tra le altre cose, il grande merito di riportare lo scudetto del pallone nella capitale, sponda giallorossa. Un titolo che mancava da più di quarant’anni dall’ultimo ed unico conquistato dai romanisti, addirittura in epoca mussoliniana.
Nei primi anni ‘90 di certo non c’erano gli smartphone e né tanto meno la schizofrenica ed istantanea divulgazione delle news in tempo reale di oggi, ed io giovane ma già appassionato tifoso della Roma, appresi la triste notizia, come detto, proprio dal televisore, guardando il Televideo, molto gettonato all’epoca: rimasi a fissare per qualche secondo la fredda schermata delle “ultim’ora” che raccontava della dipartita del nostro amato Presidente, e del brutto male che in pochi giorni non gli diede scampo. Ricordo nitido un senso di vuoto corredato dalla consapevolezza che una stagione della mia vita si stesse chiudendo proprio lì, in quel momento, in quel anonimo pomeriggio di inverno del 1991, avevo solo 15 anni.
Dino Viola non era romano e romanista in purezza, ma la sua storia è così bella, straordinaria e romantica da farlo divenire a pieno titolo, nell’immaginario collettivo dei tifosi giallorossi, un romano e romanista tra i più grandi di sempre.
Dino Viola, Adino all’anagrafe, nacque ad Aulla nella Lunigiana, piccola località della provincia di Massa-Carrara, ma venne spedito dalla famiglia a studiare a Roma sin dalla sua prima adolescenza. Il destino lo mise subito alla prova perché la mamma scomparse presto, ma lui per fortuna a Roma venne seguito dal fratello maggiore Ettore (medaglia d’oro al valore nel primo conflitto mondiale), che lo protesse e svolse un ruolo chiave nella formazione del giovanissimo Dino. Suo figlio Ettore (omonimo dello zio) racconta come l’amore per la Roma e i suoi colori si manifestarono come un vero e proprio colpo di fulmine: “… I colori giallorossi gli davano gioia e allegria già a undici anni, vederli per strada era motivo di curiosità e attrazione. La sua fede quindi nacque da giovane, seguì la squadra da subito … “. Si racconta addirittura che un giorno il piccolo Dino vide un tram pieno di gente, e lo prese al volo senza una meta precisa, solo per la curiosità di capire dove tutta quelle persone si stessero recando così festanti. Una volta sceso si trovò a Testaccio dove la Roma aveva il suo glorioso campo da gioco, il destino lo aveva portato proprio lì nella culla del romanismo. Un colpo di fulmine, appunto.
Il ragazzo divenne sin da subito un appassionato tifoso, ma nel tempo quell’amore così forte verso i colori della Roma si incontrarono anche con la sua grande ambizione, tramutandosi in qualcosa di più: mai nascose infatti di aver sempre avuto il desiderio di diventare un grande imprenditore industriale, soprattutto per comprare la Roma e diventarne il Presidente. Quel sogno non era poi una chimera così lontana perché Viola nel tempo, oltre a completare gli studi di ingegneria meccanica avviò una brillante carriera come industriale, divenendo un grande imprenditore nel comparto della produzione di parti meccaniche per armamenti. Si pensi che già nel 1968 quando la Roma passò di proprietà da Evangelisti a Marchini, Dino già in cuor suo pensò alla poltrona di Presidente a cui cominciò ad avvicinarsi concretamente, ricoprendo prima la carica di consigliere della società (sia nell’era Evangelisti che in quella Marchini) e poi divenendo vicepresidente con Anzalone, che guidò la Roma dal 1971 al 1979. Proprio nel maggio 1979 rilevò le quote della società dallo stesso Anzalone e ne venne a capo. Per lui che bramava la cosa sin da ragazzo si trattò davvero del coronamento di un sogno grandissimo.
La sua presidenza alla Roma fu caratterizzata da stagioni ricche di soddisfazioni e successi: tra l’estate del 1979 e il 19 gennaio 1991 – giorno della sua scomparsa – Dino Viola riuscì a portare nella capitale uno Scudetto e ben quattro Coppe Italia (addirittura cinque, se consideriamo anche quella del ’91, arrivata pochi mesi dopo la sua morte, quando la società venne traghettata dalla moglie, signora Flora, verso la sfortunata e controversa nuova proprietà di Giuseppe Ciarrapico). Rimane da menzionare ovviamente la sfortunata e maledetta finale di Coppa dei Campioni del 1984 persa col Liverpool, che rimane ancora oggi la vetta più alta mai raggiunto in ambito europeo nella storia della società giallorossa.
Lo spessore della gestione Viola appare evidente se guardiamo ai successi appena menzionati: tantissimi titoli specie per una società che, seppure gloriosa, non ha mai stazionato nell’olimpo dei grandissimo club.
A prescindere dal valore assoluto dei titoli conquistati però, quello che mi piacerebbe emergesse da queste poche righe, invece, è la grandezza assoluta della figura di Viola osservandola da un’altra prospettiva, che però ha bisogno di essere contestualizzata.
Dino Viola operò un vero e proprio cambio di paradigma nel mondo del calcio italiano. In quel periodo nessuno riuscì a mettere in discussione la leadership della Juventus di Agnelli, fatta eccezione appunto la società giallorossa. La Roma sotto la sua guida divenne in poco tempo la rivale principale dei bianconeri, a cui contese il titolo per diversi anni. Soltanto le storie controverse, a ancora oggi avvolte da aloni di opacità, del caso Lipopill (il famigerato farmaco il cui utilizzo fece squalificare i romanisti Peruzzi e Carnevale), e il caso di corruzione dell’arbitro Vautrot, in occasione della semifinale di Coppa dei Campioni che determinò una lunga squalifica per Viola, costituirono degli inciampi che però non poterono comunque scalfire la figura di un uomo sempre schierato dall’altra parte della barricata, contro i poteri forti.
A prescindere dalle cose già note, ci tenevo quindi a tracciare un profilo dell’ingegnere di Aulla che fosse anche un pochino sporcato dalle mie personali percezioni, visto che ho avuto la fortuna di vivere la sua era, anche se con gli occhi del bambino prima e dell’adolescente poi. Viola fu prima di tutto un uomo molto acuto e lontano dall’apparire (“figurare poco e operare molto” soleva spesso affermare), lo trovavo spesso criptico nelle sue esternazioni, e ricordo incaponirmi per capirlo fino in fondo, mi resi conto soltanto dopo che non era così semplice farlo, anzi. Una delle sue più sarcastiche battute che albergano nei miei ricordi personali fu quella che concesse a Galeazzi nell’intervallo di un memorabile Roma – Juventus del 1986, terminata 3-0 per i giallorossi (risultato primo tempo due a zero), dove chiese espressamente al suo intervistatore che lo incalzava se avesse visto Boniperti “però non mi dci come mi sento?” E di fronte alla domanda indotta, Viola rispose: “mi sento molto bello”. Il risultato decisamente positivo con cui si chiuse la prima frazione fecero gongolare evidentemente l’ingegnere, che snocciolò un’autentica perla di violese, un linguaggio da lui stesso coniato.
Ho un ricordo singolare di Viola, a primo impatto mi trasmetteva addirittura freddezza, un distacco vicino allo snobismo, sempre confidente di trovarsi lassù, a volare alto al di sopra dei comuni mortali. Tanto chic da coniare addirittura un linguaggio, come detto il violese, quel dire e non dir che poi col tempo rivelava tutto e anche qualcosa di più. Se non fosse stato il mio Presidente forse non mi sarebbe neanche stato particolarmente simpatico.
Ma questo modo di fare apparentemente distaccato celava un cuore enorme pieno di amore. Lo si vide in moltissime occasioni, prima di tutto dal grande sentimento che nutrì per la sua meravigliosa famiglia: per Donna Flora, la donna che conquistò a colpi di tenere lettere d’amore, a dispetto della suo stile comunicativo spesso ermetico, per i suoi adorati tre figli a cui insegnava la matematica con grande rigore e pari affetto, per la “sua” Roma, perché senza dubbio anche la Roma fece parte integrante della sua famiglia, una creatura di cui si infatuò appena ragazzino e che non abbandonò mai, fino alla fine.
Ma questo grande amore lo si scorse in tante altre occasioni.
Dal suo discorso di insediamento alla Presidenza della Roma che indusse Anzalone alle lacrime.
Lo si vide nel dicembre 1990, quando Viola prima di recarsi in vacanza a Cortina, si sottopose alla consueta visita medica. Nessuno sa cosa gli disse il medico a riguardo del suo stato di salute in quella circostanza, ma di certo il Presidente si guardò bene da farne parola con la famiglia per non arrecare preoccupazione alcuna. Andò in montagna, come al solito. Ebbe quindi un malore e subì l’operazione d’urgenza, una ventina di giorni prima della fine.
Lo si capì chiaramente dalle parole di Boniperti che parlò della perdita di un amico ancor prima che di un avversario, all’indomani della sua morte.
Lo si vide dal fatto che lasciò la società in una situazione finanziaria virtuosa ed in corsa per tutti gli obiettivi sportivi stabiliti ad inizio stagione.
Lo so vide perfino il giorno stesso della sua morte quando durante la mattinata chiese alla famiglia, si raccomandò per la sua Roma: “Mi raccomando, dite ai ragazzi che domenica non facciano scherzi”. La domenica successiva i ragazzi invece lo scherzo glielo fecero purtroppo, e la Roma perse in casa col modesto Pisa subendo un secco zero a due. Evidentemente lo smarrimento quel giorno fu davvero troppo grande per molti di loro che persero un grande punto di riferimento, in alcuni casi quasi una figura paterna.
D’altro canto c’è da dire che Viola non perse la vena umoristica neanche durante gli ultimi giorni di vita, e se ne andò lamentandosi del fatto che i giornali si occupassero più della guerra del Golfo che delle sue condizioni di salute. Protagonista fino alle fine insomma.
Nonostante la grandezza della sua figura anche il grande Presidente Viola non fu esente delle contestazioni dei tifosi nei periodi in cui la squadra andò male. Ricordo per esperienza diretta come dalla curva Sud si innalzò in alcune circostanze l’ingrato coro “Viola Dino bagarino!”, una ferita che rimase aperta per diverso tempo nel cuore del Presidente. Ma come in tutte le grandi storie d’amore qualche screzio può esserci, specie nei lunghi sodalizi, ma il sentimento se c’è, ed è autentico, rimane comunque intatto. Anche la storia di Viola ha una valenza diversa oggi se la guardiamo con gli occhi della storia, e non con quelli della cronaca con cui si fece all’epoca, con cui si guarda in genere nella contemporaneità.
Ho sempre pensato (e lo penso tutt’ora) che il tempo è un gran signore e che prima o dopo rende omaggio a chi ha fatto bene nel corso della propria esistenza, ma che magari ha raccolto meno di quello che avrebbe meritato. Ebbene la stessa cosa avviene per la figura dell’ingegner Viola riconosciuto oggi ancor di più, a trent’anni dalla sua scomparsa, come uno dei più grandi uomini di calcio di tutti i tempi.
Ma del resto poteva essere altrimenti? Anche Dino Viola, da Aulla, fu davvero un gran signore.
Chapeau.
FONTE: glieroidelcalcio.com