Avendo ottenuto il preventivo perdono da San Siro, che a un anno dal fatale 0- 0 con la Svezia ha ritenuto espiata la colpa e si è riempito per accordare l’assoluzione ai penitenti, la Nazionale di Mancini può dirsi uscita dal purgatorio del 2018, con riserva. In verità anche l’ultima partita ufficiale dell’anno è finita 0- 0, anche stavolta l’Italia ha chiuso invano all’assalto e anche in questo caso sono stati gli altri a festeggiare: il Portogallo ha aritmeticamente vinto il girone di Nations League e accede alla final four del 2019, che organizzerà. Ma per gli azzurri le sinistre assonanze col fatale play-off del novembre 2017 si fermano qui. Nel primo tempo hanno messo alle corde i campioni d’Europa. La risalita è ancora lunga, ma al sorteggio del 2 dicembre per le qualificazioni a Euro 2020 arrivano da testa di serie e con discreta autostima. In due mesi, dopo l’ineccepibile 1- 0 subito a Lisbona, hanno dimostrato che quel risultato era frutto di una formazione assai ritoccata. Ieri Mancini ha fatto le prove con 10 verosimili titolari su 11. La sostituzione dell’infortunato Bernardeschi ha alimentato dibattito tattico: preferendo il centravanti classico a Berardi falso nueve, il ct ha offerto al digiunante goleador Immobile l’occasione del riscatto, che lui, pur sforzandosi di partecipare al gioco con mosse da pivot, ha sprecato.
L’inizio è stato trascinante: la Nazionale si divertiva, col gusto per gli scambi rapidi e raffinati dei piccoletti: il vortice dei passaggi e degli scambi di posizione coinvolgeva soprattutto Insigne, Barella, Verratti e Jorginho. L’intesa tra gli ultimi due illustrava nella pratica il concetto del doppio regista: una coppia di palleggiatori votati al costante trasbordo in avanti del pallone. La posizione più nuova, però, era quella di Insigne: esterno della linea a 4 nelle rare situazioni difensive, diventava rifinitore, accentrandosi, quando il pallone era dell’Italia. La superiorità numerica era soffocante per il Portogallo, costretto al fallo sistematico: con Biraghi avanzato sulla linea di Chiesa e Immobile, e con Barella affiancato a Insigne come incursore sul centro- destra, erano ben 5 gli azzurri sempre a ridosso dell’area di Rui Patricio. L’immediata riconquista del pallone illustrava un altro concetto della rivoluzione filosofica di Mancini: la difesa attraverso il pressing altissimo, evoluzione del cosiddetto tikitaccio spagnolo. I difensori di mestiere si limitavano agli anticipi di prepotenza atletica, in cui eccelleva Chiellini.
La nota dolente, come nella fresca e felice trasferta in Polonia, è che il monopolio del gioco non si è tradotto in gol: per imprecisione e per una certa tendenza al rococò. Sono state soltanto due le parate di Rui Patricio: in volo su un destro da fuori di Insigne, con Immobile ad alzare la respinta del portiere, e di piede, in uscita, su Immobile innescato allo scatto da Verratti. Un rasoterra di Florenzi a lato, una testata appena fuori di Bonucci su punizione e le infilate in di Barella, Insigne, Chiesa e Biraghi hanno arricchito la frustrazione.
Nella ripresa, a poco a poco, è emerso l’altro problema di un gioco tanto dispendioso: il calo fisico alla distanza, per la fatica crescente di Verratti e Insigne e la solitudine di Jorginho nel pressing. Mancini ha inserito Lasagna per lo spaesato Immobile, ma Santos ha immesso Joao Mario, la cui girata alta ha suonato da allarme. Poi, infatti, Donnarumma ha dovuto disinnescare una stoccata di Carvalho e Chiesa, nel finale, ha rischiato per una gomitata. È il sesto pari di seguito in casa: il sortilegio continua.