o ho assorbito male l’abolizione del retropassaggio al portiere, mi ha privato prima ancora che di una regola confortante quando la Roma è in vantaggio, di tutta un’estetica insopprimibile: il rimbalzo del pallone fatto fare da Tancredi dopo esserselo portato al petto, quell’uno-due da melina che serviva a frustrare gli avversari e a fregare il tempo. Anche se penso a Zoff o ad Harald Toni Schumacher mi immagino un uno-due con Scirea o Stielike, palla da terra al petto e poi rinvio lontano. Dove gettavi le speranze. L’Europa League non riesco a non chiamarla Coppa Uefa, ed è solo in parte per snobismo “vintagistico” o melensa sterile borghese colpevole nostalgia, ma proprio perché non mi viene. La Champions con tanto di musichetta da tempo la trovo una truffa visto che la Coppa dei Campioni la dovrebbero fare solo i Campioni, non i terzi e i quarti perché quelli dovrebbero fare la Uefa, che personalmente sogno quanto uno Scudetto. Sulla Coppa Coppe soprassiedo solo per ovvie romanistissime ragioni e non scherzo: ho trovato giusta la sua cancellazione.
La Superlega sembra un Superscherzo, un super salto in avanti che merita aggettivi roboanti e dannunziani, discorsi da Oscar, di iperboli e di turbocapitalismi. Non è più una battuta da Caterina Guzzanti ma mera cronaca. Una supercazzola prematurata a mezzanotte in punto da quattro per tre dodici amici al bar delle multinazionali che siccome hanno finito di pasteggiare con champagne e salmone s’inventano un altro mercato, un’altra (la stessa) soluzione. Dodici apostoli del dio capitale che organizzano tipo calcetto un Torneo Anglo-Ispanico-Italiano (e voi che mi ridimensionate l’Anglo-Italiano del ’72, maledetti!!) una coppa recupero crediti visto che per davvero non ci sono nemmeno più i soldi per affittare i campetti. Oligarchia: non si retrocede, siamo solo noi e solo uno su mille ce la fa; oligarchia, la più sfrenata che al confronto quella neonata in Russia dopo il crollo del muro pare un’allegra confraternita tipo setta dei Poeti estinti. “Oh Capitale, mio Capitale”.
La Superlega è una supercaxxata che è già realtà o forse lo diventerà per davvero, ma al di là dello stupore per le tempistiche (un po’ da “sorci” di mezzanotte) stupisce lo stupore di tutti. La Superlega è prima della Superlega, forse per questo è super. La Superlega è in Neymar pagato 222 milioni da uno Stato, è nei Mondiali del Qatar che solo in pochi hanno il coraggio di boicottare e che magari si giocheranno la notte di Natale, nelle partite giocate sempre, ogni giorno, in ogni dove, in ogni condizione, nei diritti tv che sono jackpot interstellari da dividere con criteri di classe, negli scambi di mercato inventando valori e cifre per un bilancio che quasi per esigenza dev’essere sbilanciato. La Superlega è già nel tifoso che dice “ma a me che me frega della Coppa Italia, io penso solo alla Champions”; già in un calcio che ha fatto del quarto posto un trofeo, della vittoria a tutti i costi l’unica ragione di vita, che contesta (anche comprensibilmente) le plusvalenze ma poi pretende solo campioni, che s’inventa per sopravvivere iper valutazioni e mette sempre in quel bilancio sbilanciato sbilanciate sponsorizzazioni. Bolle. Che sono esplose. Plusvalenze.
E tutto questo non è nato ieri e non solo per colpa delle 12 sorellastre. Il vero stupore è lo stupore di tutti, mentre andrebbe conservato lo stupore guardando i soggetti dello sdegno. Perché fa quantomeno strano leggere la Uefa, la Fifa, tutti i media mainstrem, nazionali e supernazionali, le istituzioni, i governi, i draghi e le principesse dire di no. Loro a parlare di favole, di calcio del popolo, di ritorno all’antico.
Ma fino a ieri chi lo ha condotto questo pallone? Chi lo ha portato lontano dalle persone? Sembra che prima di ieri notte il pallone fosse quello del retropassaggio (oh a me piace) o di chissà quale tempo andato, forse un vero tempo mitico che non c’è mai stato ma dalla cui idea sicuramente siamo progressivamente dipartiti, i primi responsabili sono proprio quelli che da ieri sono sdegnati: il governo del calcio, nazionale e internazionale, le leghe private e nazionali, e pure la narrazione fatta veicolare. Ceferin che parla di sputo in faccia non è Che Guevara, Boris Johnson non è Robin Hood, chi ha lodato qualsiasi cosa di Inter, Juve e Milan, dell’operazione e degli addominali di Ronaldo, dei vecchi adagi e dei rutti di Ibrahimovic, chi ha bloccato la costruzioni di nuovi stadi perché sullo sport non si deve investire bene, chi ha fatto leggi contro il tifoso a partire da quella della Tessera per andare allo stadio fino a proibirlo completamente lo stadio, oggi si vede solo tolto il giocattolo dalle mani. Ma era già fallato.
La Superlega è un esito di chi non lo aveva previsto. Il nuovo giocattolo da chi il giocattolo è sfuggito di mano: club potenti e organizzazioni (in)competenti. Ma non è un’anomalia del sistema, è il suo perfetto prodotto. E tutto questo è nato dal momento in cui il tifoso non è stato più messo al centro del sistema calcio. Più esattamente, da quando lo si è cominciato ad allontanare fisicamente dallo stadio. Si è portata in questura gente per un fumogeno. Si sono multati striscioni per Aldrovandi. Gli esempi sono milioni.
Non è un caso che questa decisione arrivi nel primo momento della storia del calcio in cui gli stadi sono vuoti. La pandemia ha messo a nudo tutto: gli iper interessi economici e le bolle speculative, le sovrastrutture e i movimenti finanziari creativi… alla fine restano gli scheletri: stadi vuoti come carcasse, come ritrovamenti di mammut, come città sotterranee di una volta. Il nostro calcio oggi è Atlantide. L’odore di fumogeni e di sigarette da stadio, come incensi rari per oracoli in templi di tempi mitici. Il giorno in cui il sole e le arance illuminavano la pista dell’Olimpico oggi sono una visione sotto LSD. Blade runner e il suo “ho visto cose” è per gli umani non più per i replicanti. Viviamo un tempo non augurato. Distopico si dice. Da Superlega invece che da Superboys e da Supersantos.
E dovremmo anche finirla di attaccare la retorica della retorica del passato perché oggettivamente era meglio Shingo Tamai di Holly e Benji e il pallone di Palanca e Maiellaro a questo qua. Farla finita di aver paura di parlare di sentimenti: fino a prova contraria il tifoso è una persona che nutre dei sentimenti verso dei colori e una squadra. Se non crediamo a questo, amen. Fanno bene loro. Perché tutto questo non è solo un discorso: se io tifo solo Roma o solo Cagliari o solo Arezzo o solo Sambenedettese o solo Liverpool o solo quello che vi pare, io la seconda squadra non ce l’ho e non ce la voglio avere, se io ho un senso di appartenenza che racconta visceralità, tradizione e sangue riconosco quei valori in Cagliari-Parma 4-3 con Kurtic in mezzo al campo e Joao che gli si siede accanto. Lo preferisco a Real-Liverpool. Di tanto.
Preferisco gli spareggi della Lega Pro (casomai mi dà fastidio che non si chiama C) a una partita della Superlega fra Spurs e Barcellona, ma a me che me frega? Io quando sono andato a vedere Roma-Barcellona sono andato a vedere Juan Jesus che gli faceva fallo, non Messi. Io mi vanto della Coppa Coni del 1928, del Torneo Anglo Italiano del 72 festeggiato a Piazza del Popolo, ci tengo di più che al 3-0 col Barcellona, perché sono le mie ragioni, i miei filamenti di dna, sono la mia Roma. Per me quello da salvare è proprio soltanto l’amore sperticato verso la squadra del cuore, talmente incontrollabile che la tiferei ovunque.
E la questione credo sia qui: siamo arrivati a questo perché se ne sono approfittati di questa passione oppure è stata la mancanza di passione – l’averla ostacolata in tanti modi – che ha portato a questo situazione? Io la Roma la tiferei ovunque: in Serie C e in una Super o mini lega fatta solo di tre squadre, forse pure di due. Forse è meglio un retropassaggio al portiere adesso.
FONTE: Il Romanista – T. Cagnucci