La maglia non si tocca. L’attaccamento alla maglia. Onora il padre e la madre, ma anche la maglia. Concetti romantici, ormai avvolti dalla nebbiolina del ricordo, che in alcuni casi stingevano, e stingono ancora, in declinazioni minacciose, con certi tifosi che pretenderebbero dai calciatori del terzo millennio un attaccamento ai colori come nelle ere geologiche del pre-svincolo o prima di Bosman, quando il legame del giocatore col club era spesso imposto dalle circostanze, mica sempre e solo dal cuore. E allora: non meritate questa maglia, toglietevi quella maglia di dosso, anzi fatelo in fretta sennò è peggio per voi. Ma il mondo è cambiato, e il calcio non parliamone. La maglia è mutata concettualmente e si è rivoluzionata in pratica: una volta era di stoffa pesante, anche un po’ largotta addosso e sui fianchi, ora è di tessuti sintetici, antitraspiranti e aderenti, e guai ad avere un filo di pancia che si vede subito (ma non ditelo a Higuain). Insomma ora la maglia, come i calciatori che la indossano, è proprio un’altra cosa, e diciamocelo: se qualcuno è veramente attaccato alla maglia nel calcio moderno, quelli sono i signori sponsor. Loro ci tengono moltissimo. La maglia è la loro vetrina, è veicolo promozionale, è terreno di conquista, gomiti larghi e nessuno si avvicini, visto quello che pagano. Siamo tanto abituati a vedere il logo dell’inserzionista sul petto del centravanti dei nostri sogni che fa strano ormai leggerci dell’altro, come capiterà alle maglie del Genoa a partire dalla partita contro la Roma. Domani ci sarà una frase di Fabrizio De André: «Al Genoa scriverei una canzone d’amore, ma sono troppo coinvolto», mentre nelle successive partite ci saranno altre frasi, tutte di genoani o illustri. Bella iniziativa? Certo. Però lo sponsor si staglia sullo sfondo anche qui, perché trattasi di campagna promozionale finalizzata a rivelare il nome del misterioso inserzionista alla fine della serie di magliette, che tra l’altro diventeranno pezzi unici e saranno a loro volta vendute ai tifosi in ossequio alle leggi del merchandising, che te lo dico a fare.
Raramente, del resto, negli ultimi decenni lo sponsor si è tirato indietro scomparendo del tutto. E’ accaduto davvero nel novembre 2015, quando all’indomani degli attentati di Parigi il Paris St Germain di Ibrahimovic esibì la scritta “Je suis Paris”. Un sasso nello stagno, o poco più. Quei pericolosi eversori di sinistra del Sankt Pauli, il club di Amburgo, lo scorso anno affrontarono il Lipsia con stampato addosso: “Kein Fussball Den Faschisten”, niente calcio per i fascisti. Dalla politica al sociale. Dopo i cori razzisti dei propri tifosi a Boateng nel 2013, la Pro Patria ebbe sul petto “Contro il razzismo uniti come un arcobaleno”, ma lo sponsor rimase in bella vista. Bisogna uscire dal calcio per osservare sulle maglie dell’Aquila rugby, dopo il terremoto del 2009, immagini di monumenti in ristrutturazione, o paesaggi dell’Abruzzo ferito, o disegni di bambini. Molto calcistico e molto politico era invece il Corinthians di Socrates, che nel novembre 1982 mise sul petto “il 15 andate a votare”, perché c’era da abbattere una dittatura ormai morente, mentre altre volte il Dottore i suoi compagni si scrissero sulla schiena il loro slogan che ha fatto storia, “Democracia Corinthiana”. Ma erano già dinosauri anche loro, come la dittatura di Figueiredo che combattevano. Il calcio era già nell’era degli sponsor almeno dal 24 marzo 1973, quando l’Eintracht Braunschweig esibì sulla maglia il nome dell’inserzionista, un amaro che piace molto ai tedeschi. Fu la prima volta. Quel giorno il denaro entrò a piedi uniti nel mondo del calcio, e nessuno gli ha mai fischiato una punizione per gioco falloso. Anzi, gli hanno dato proprio il fischietto.