(ASROMA.IT) «Non mi posso considerare un presidente fortunato, ma sono contento che sia stato riconosciuto il valore di alcuni dei miei ragazzi, entrati in una formazione ideale di tutti i tempi». Roma Nord, è da quelle parti la residenza di Gaetano Anzalone, 82 anni lo scorso 5 ottobre, ex numero uno del club dal ‘71 al ‘79, oggi imprenditore edile. La sua Roma non vinse nulla, a volte fu pure impelagata nelle zone “calde” della classifica, ma nella top undici della Hall of Fame giallorossa sono stati eletti ben cinque dei suoi calciatori: Tancredi, Rocca, Di Bartolomei, Conti, Pruzzo. Una maggioranza che restituisce dignità al suo operato. Non è a conoscenza dell’iniziativa della Società, ma sul suo tavolo c’è una copia del Messaggero. «Leggo l’articolo sul giornale, così le posso dire di più. Avevo dato una scorsa ad alcune notizie, ma ancora non ero arrivato allo sport». Scorre le pagine e arriva al punto. «Ah, eccola, la Hall of Fame», dice scandendo le parole.
Tancredi in porta.
«Franco lo presi dal Rimini per una cifra intorno ai sessanta milioni di lire. Il Milan un paio d’anni prima me lo sfilò, ma poi riuscii a ingaggiarlo nel ‘77 e diventò uno dei più forti nel suo ruolo. Con lui doveva arrivare anche Renato Curi, un bel centrocampista, che poi scomparse tragicamente durante una partita con il Perugia».
Difesa: Cafu, Losi, Aldair, Rocca.
«Cafu e Aldair non sono roba mia. A Losi fui costretto a dire che non rientrava più nei piani. Non ebbe nessuno il coraggio di farlo, toccò a me. Non ero nemmeno il presidente, allora, ma il vice di Marchini. Fu una decisione di Herrera, a mio avviso sbagliata, ma dovemmo approvarla. Regalammo così a Giacomo il cartellino, per dargli la possibilità di andare altrove senza troppi problemi, ma tanto grande fu la sua delusione e il suo amore per la Roma, che decise di smetterla là. Rocca era fortissimo, uno dei migliori in assoluto. Era romanista vero, lo sentiva dentro, e una persona seria, semplice, come non ce ne sono. Uno dei pochi amici che mi sono rimasti nel calcio. Si infortunò al ginocchio e quando venne operato il medico mi venne incontro e mi disse: “C’è la cartilagine di mezzo, non c’è niente da fare. Francesco non potrà più tornare a giocare”. Ebbe ragione, purtroppo».
E chi era il medico di allora?
«Non avevamo un medico sociale, ma un vero e proprio staff. Fummo i primi ad avere questa intuizione, di avvalerci di sei o sette professionisti. Il responsabile del settore si chiamava Caruso e in lui avevo grande fiducia. Il caso di Rocca fu una mazzata tremenda per tutti noi, non avevo mai visto uno con quel talento e quella velocità su un campo di calcio. Smise a soli 26 anni, pensate quanto sarebbe potuto diventare forte nel tempo».
A centrocampo Di Bartolomei, Falçao e Bernardini.
«Falçao lo prese Viola e fu un acquisto determinante. Bernardini non si discute, ma appartiene a un’altra epoca. Di Agostino ricordo quando mi invitarono a vederlo da ragazzo che giocava negli allievi. Si vedeva che era di un’altra pasta, ma aveva anche un carattere molto particolare».
Attacco con Conti, Pruzzo e Amadei.
«Amadei lo vidi che ero un bambino. Bruno esplose nella sua esperienza a Genova. Giagnoni, purtroppo, non lo vedeva e gli preferiva altri. Roberto lo presi pagandolo abbastanza. Lo volevano tutti quell’estate, riuscimmo a portarlo noi. La Juventus, addirittura, mi offrì un sacco di soldi, ma io non glielo diedi. Facevo il mercato per rinforzare la Roma, non per rinforzare gli altri».
Avrebbe inserito qualcun altro nella sua squadra ideale?
«Peccenini, il terzino, mi piaceva molto. Lui giocava a destra e Rocca a sinistra. Destino simile a quello di Francesco, anche lui ebbe problemi fisici che lo frenarono. Vede quando dico che non sono stato molto fortunato come presidente… Questo è uno dei motivi».
Spieghi meglio.
«Rocca e Peccenini finirono così. Presi un altro ragazzo, poco più che ventenne, dal grande avvenire: Spadoni, giocava in attacco. Anche lui, durante una gara con l’Inter, pregiudicò la carriera per un intervento duro di un avversario. Quando ti vengono a mancare tutti questi calciatori, così giovani e bravi, diventa difficile…».
Questo il suo unico rammarico?
«No, sono sicuro che se Evangelisti prima di me non avesse fatto quella pazzia, vendendo Capello, Landini e Spinosi alla Juventus in un colpo solo, mi sarei ritrovato una rosa competitiva. E, magari, avrei avuto qualche titolo in più».
Eppure nel ‘75 la sua Roma arrivò terza.
«Fu un buon campionato con Prati e gli altri. L’anno dopo cercai rinforzi non per vincere lo scudetto, ma almeno per confermare quanto di buono fatto la stagione precedente. Arrivò Boni che comprai per ottocento milioni, una bella cifra. Ma la squadra andò male, lì cominciai a capire che qualcosa nel pallone non andava e che non tutti i personaggi erano trasparenti. Feci le mie indagini e scoprì quello che si sarebbe scoperto anni dopo da altri».
Allude al calcioscommesse degli anni Ottanta?
«Esatto. Morini e Pellegrini successivamente sarebbero stati coinvolti nel caso. Quando li mandai via all’inizio fui criticato, poi qualcuno capì».
Peccato che questo scandalo resti sempre molto attuale.
«L’ambiente è quello che è, difficile, molto difficile. E poi, i calciatori non sono tutti così intelligenti. Solo di pochi mi porto dietro un bel ricordo».
Di chi?
«Quelli che ho già citato, Rocca, Peccenini, gente vera, ma mi piace ricordare un aneddoto legato a Spadoni: una volta gli regalai un libro di uno scrittore sudamericano. Io ci misi qualche mese a finirlo, lui ci riuscì in una ventina di giorni. Probabilmente lui aveva più tempo degli altri, visto il grave infortunio che subì, altri non lo avrebbero nemmeno aperto».
Moggi, uno degli uomini più controversi del calcio italiano, lavorò per lei. Non nutrì mai sospetti su di lui?
«No, affatto. Con me era un ottimo talent scout. Pruzzo è suo, per esempio. Ma fu lungimirante anche con Spadoni: nessuno aveva intuito la sua classe».
Ad un certo punto della sua gestione, all’ingaggio di trentenni sul viale del tramonto, preferì puntare sulla linea verde, su calciatori del vivaio giallorosso.
«I campioni è bene crescerli in casa. Perché spendere soldi per elementi in là con gli anni che giocano mezza partita? A trentaquattro, trentacinque anni chi può fare la differenza?».
Pochi. Giusto Totti.
«Ma Francesco è un caso a parte, è senza dubbio uno dei più grandi sempre».
Tornando alla sua Roma?
«Quando decisi di valorizzare i giovani, avevo Rocca, Peccenini, Conti, Di Bartolomei e li lanciai. Alcuni di loro diventarono poi campioni d’Italia nell’83. Non fu certo una scelta sbagliata».
Un’altra sua intuizione, il centro sportivo di Trigoria.
«Un mio orgoglio. Lo inaugurai nella stagione ’79-’80. Venne edificato su un terreno di proprietà di un altro ex presidente, Marini Dettina. L’investimento allora fu di due miliardi di lire, pensate quanto può valere oggi».
Se dovesse scegliere una maglia ideale per la squadra della Hall of Fame?
«A me piaceva quella bianca della Pouchain con le righe orizzontali giallorosse».
La maglia Pouchain, la prima con il lupetto stilizzato di Gratton al posto della lupa capitolina, che sarebbe poi tornata sulle maglie giallorosse grazie a Franco Sensi nel ‘97.
«Bisognava dare ossigeno alle casse societarie, non particolarmente floride. Con quell’iniziativa di merchandising qualcosa riuscimmo a guadagnare. Allo stadio aprimmo pure dei Roma Shop, negozi con i nostri colori e in più una segnaletica con il lupetto. Lì vendevamo tanti articoli, fummo i primi in Italia».
Fu anche il primo a portare la Roma in tournée in America.
«Era il 1976, concludemmo il campionato con qualche delusione. Ma non era questo il punto. La stagione finì in anticipo per dare spazio agli Europei. Allora decisi di portare la squadra nel mese di giugno negli Stati Uniti per farla conoscere anche lontano dalla Capitale. Niente a che vedere con il tour organizzato recentemente dai nuovi proprietari del club, studiato nei minimi dettagli. I mezzi per noi erano limitati, in più nemmeno ci pagarono l’intera quota di partecipazione che ci spettava».
(ASROMAULTRAS.ORG) Gaetano Anzalone adesso è lontano, lontanissimo dalla Roma: non è più andato allo stadio, non ha più visto una maglia giallorossa.
«E’ la Roma – dice con un’amarezza velata, leggera e un po’ aristocratica – che si è allontanata da me: nessuno mi ha più cercato, chiamato; come se io, otto anni presidente, non fossi mai esistito».
Lo hanno dimenticato dirigenti arroganti, gelosi, ingordi di pubblicità, ma non lo hanno certo dimenticato i romanisti: per scambiare quattro chiacchiere, è stato necessario rintanarsi, sfuggire ai tanti che lo fermano.
Lo salutano, gli esprimono simpatia. Anzalone è stato, dice l’aneddotica, il presidente buono, sempre commosso, alle prese con un impegno troppo grande per lui.
«Sono stato un buon amministratore, ho lasciato una Roma giovane, sana nel bilancio, senza problemi.
Se vi sembra poco, scusate. Però non ho vinto, e per questo me ne sono andato». Scorre, nel suo racconto, un filo di verità gonfio, caldo, emozionante.
«Io ho preso la Roma da Marchini per 1 miliardo e 480 milioni, l’ho ceduta a Viola per 1 miliardo e 600 milioni: con in più Trigoria e un vivaio giovanile forse unico in Italia; e con in mezzo otto anni di svalutazione galoppante: mi sembra di essere stato avveduto e onesto, non ho tentato speculazioni».
Come è buffa, talvolta, la storia. Anzalone non ha vinto ma il presidente che ha vinto è stato uno solo, Dino Viola, ed ha vinto proprio lavorando sulla solida base della Roma che gli è stata quasi regalata.
Per vincere, Anzalone ingaggiò Scopignó, Herrera, Liedholm, e di meglio in giro non c’era; portò alla Roma gente come Bruno Conti, Roberto Pruzzo, Pierino Prati.
Che mistero c’era dunque, dietro quella Roma apparentemente forte ma impotente?
Con quello che Anzalone dice, sussurra, fa capire tra mille ritegni, ci sarebbe da riscrivere la storia del calcio italiano.
C’era un groviglio di situazioni ambigue, di ritorsioni arbitrali, di inimicizie federali, di antipatie e di ripicche.
«Sapete quale è stata la cosa più importante che io ho fatto per la Roma?
Un viaggio penitenziale, la testa cosparsa di cenere ma la dignità stampata in viso, verso Firenze, da Artemio Franchi presidente federale. Gli chiesi scusa e ancora oggi non so perché. Scusa di che? di quello che combinò Michelotti ai danni della Roma nella famosa partita con l’Inter?
Mi spiegai, chiesi amicizia, e la stessa cosa feci con tutti i potenti del calcio italiano: le cose cominciarono a cambiare e io mi rifiutavo di crederci.
Questa fu la mia più grande opera in favore della Roma e fu un’impresa ciclopica: restituirle il rispetto di tutti».
Farla uscire dagli inferi, dal mondo dei condannati, ma non bastò per vincere. «Non bastò, e solo allora mi sentii sconfitto e me ne andai».
In questo quadro, azzardiamo, è vera anche la storia dell’epurazione dopo una strana sconfitta che decise le sorti del campionato ? «Certo che è vera, io non avevo elementi precisi di giudizio, di colpevolezza, altrimenti avrei scatenato il finimondo. Ero nel dubbio, e nel dubbio tacqui ma cacciai via tutti».
Perché un personaggio così sensibile e rigoroso andò a cacciarsi in un’avventura tanto complicata come la presidenza della Roma?
«Perché mi piaceva tanto».
E si è divertito?
«Assolutamente no».
Ci ha rimesso soldi?
«Tanti, tantissimi».
Si è rovinato, come Marini Dettina?
«No, perché io sono un amministratore severo; il bilancio della Roma restò sempre in attivo e con giocatori valutati pochissimo: che so, Tancredi 40 milioni, e valeva dieci volte di più. Il mio bilancio personale invece andò in rosso profondo, ma quando mi resi conto che ai sacrifici finanziari non corrispondevano i risultati,
passai la mano. Solo Marini Dettina si è davvero rovinato per la Roma, quello che gli hanno fatto è inenarrabile».
Tra un saluto e l’altro dei romanisti antichi; Anzalone sospira, come se il ricordo gli pesasse. «Ero stanco, non avevo più mezzi finanziari, ero deluso». Adesso soffre solo un distacco ingrato («Non mi hanno invitato neppure alla festa d’addio di Bruno Conti»), ma lo soffre in modo lieve, generoso, perché capace di perdonare. «Viola mi disse: dobbiamo assicurare la continuità, e infatti non si fece più sentire, anche se praticamente gli avevo regalato la Roma. “In realtà Dino Viola non mi amava”.
E Anzalone amava Viola? Sorride: «Mica tanto». «E pensare che se avessi venduto Pruzzo alla Juventus avrei potuto regalare la Roma ai tifosi. La
Juventus ; mi offriva, per Pruzzo, più di quanto Viola poi mi ha dato per prendere la società».
E perché non cedette Pruzzo?
«Perché ero un ingenuo, questo è stato il mio più grande difetto, e nell’ingenuità temevo di danneggiare la squadra».
Anzalone ingaggiò Scopigno, Herrera, Liedholm. Chiediamo: chi era il migliore? «Scopigno senza dubbio, di gran lunga il più intelligente». Ed Helenio Herrera? «Parlava troppo e combinava un sacco di guai». E Liedholm? «Un fenomeno, ma troppo attaccato ai soldi, la cosa che gli interessava di più era il contratto».
Anzalone ha ingaggiato tre grandi allenatori però ha anche affidato la squadra a Trebiciani. «Allora non avete capito, dovevo dimostrare di aver fatto chiarezza, dovevo presentare al Palazzo una Roma senza più ombre».
Arrivato alla Roma per curare il settore giovanile, dopo i trionfi con l’ Ostiense, Gaetano Anzalone costruì una «Primavera » che comprendeva, Sandreani, Peccenini, Rocca; Di Bartolomei,Tovalieri, Di Chiara, Lucci e infine Bruno Conti. Ma davvero è stato un presidente sconfìtto? «Sì, perché non ho vinto con la prima squadra, però ho messo la Roma in condizione di vincere, con un bilancio sano – sennò Viola non l’avrebbe comprata – e un vivaio di straordinaria ricchezza tecnica». Per gratitudine, lo hanno cancellato dalla storia romanista. Stiamo per scrivere l’unica cosa che forse Anzalone non ci perdonerà: il presidente dell’ A.S.Roma dal 1971 al ’79, non ha una tessera omaggio.
Intervista del 2012 a Gaetano #Anzalone, che realizzai per https://t.co/gRwIsAl90C in occasione della prima #HallofFame. #ASRomahttps://t.co/eaGnzb1hLl
— Tiziano Riccardi (@TizRicc) May 18, 2018