È stato il presidente della sede al Circo Massimo col lupetto sul vetro, di sampietrini che sapevano d’arancio, della Roma con la maglietta a ghiacciolo, della pouchain. La sua Roma era nostra.
Ieri è stato persino bello vedere quante persone hanno ricordato Gaetano Anzalone. Anche sui social, fosse anche per il gusto di partecipare trascinati dal torrente emotivo del momento, ma va bene: perché si ricorda un grande presidente della Roma e soprattutto perché prima di ieri l’ultima volta in cui si è parlato di Anzalone fu quando nel ’79 lasciò la Roma.
Pianse quel giorno. Oggi qualcuno a Roma piange per lui. In mezzo silenzio. Colpevole silenzio. Decenni di bianco, di ovatta, di neve, di oziose o assenti ricostruzioni storiografiche. Qua e là qualche eccezione buona per lo più a contribuire già in vita a rendere un cameo Anzalone. Qualcosa di vintage. Perché ce lo siamo dimenticati, così come sostanzialmente ci siamo dimenticati di Giuliano Taccola, il nostro Meroni. Qualcosa di vintage, ma sì giusto qualcosa. Un inserto nella storia della Roma, quando invece lui ha costruito il solaio per la sala dei trofei.
A lui dobbiamo Trigoria, il lupetto (e quindi centinaia di mattinate passate a cercare di disegnarlo), Liedholm, Rocca, Dibba, Conti, la Primavera supercampione, il ritorno di De Sisti, Prati e il sorpasso, l’anno d’oro del terzo posto, Tancredi, Pruzzo… cioè più o meno tutto (a me basta che non ha voluto cedere Ago in un momento in cui molti lo chiedevano).
Anzalone è stato il presidente di un’epoca, della sede al Circo Massimo col lupetto sul vetro, di sampietrini che sapevano d’arancio, della Roma con la maglietta a ghiacciolo, della pouchain che ancora oggi non ho capito se è la più brutta o se è la più bella della storia della Roma. Però sicuramente era mia. È questo: la sua Roma era nostra.
Non può mai essere un caso, mai, che in quegli anni è nato l’inno più bello del mondo, che in quegli anni la gente romanista si è scelta la Curva Sud come casa: tutto questo ha contribuito a formarci, a sentirci, a essere romanisti. Essere romanisti, Anzalone a un certo punto non ha fatto altro, perché lui per scelta si è eclissato.
Avremmo dovuto scoprirlo noi, fargli tana qualsiasi altro giorno non solo ieri o oggi al funerale. Nascondeva quello che per lui era la sua idea di Roma: una cosa preziosissima a cui dedicarsi con tutto se stesso. Per farla vincere. Oggi, però, questo ricordo così intenso è una grande speranza: ci si commuove un po’, o tanto (e piange il lupetto), si spendono belle parole, si postano immagini di Roma-Atalanta, di derby Anni 70 eccetera per un presidente che praticamente non ha vinto niente e lo si fa negli anni in cui non bastano magari nemmeno le semifinali di Champions (non v’azzardate eh).
Io voglio vincere, anche Anzalone voleva vincere, se ne è andato proprio perché aveva capito che a quel punto non era possibile, ma se la Roma è poi riuscita a farlo, già l’anno dopo il suo addio è per tutto quello che ha fatto lui e per come l’ha fatto. Non c’è grande imprenditoria senza sentimento. I trofei li vinci così, con l’appartenenza e col cuore, con la passione e con l’amore, pure quello che ti fa piangere. Come ha fatto lui quando ha lasciato la presidenza: è con quelle lacrime che poi la Roma è diventata campione. E noi oggi non siamo così diversi da lui quando lasciò la sua Roma.