Era dagli albori americani e dal progetto incompiuto di Luis Enrique che la Roma non partiva così male in campionato. Uno stop alla crescita che rimette in discussione i piani del club, una brusca frenata in un percorso che ha trasformato la musichetta della Champions in una vera e propria colonna sonora. Ed è proprio il cammino europeo dell’era Di Francesco a costituire, paradossalmente, la prova di quello che questa squadra è capace di fare. Ma non basta avere le stigmate dei campioni, bisogna esserlo sempre: è nella continuità che ci si scopre grandi. I giallorossi, gli stessi che lotteranno domani sera col Real Madrid per il primato nel girone, finora hanno vinto 5 partite in Serie A, perdendone 4 e pareggiandone altrettante, per un totale di 19 punti. Peggio aveva fatto solo Luis Enrique con 17 nelle prime 13 giornate, frutto di 5 vittorie, 2 pareggi e addirittura 6 sconfitte.
De Rossi è il solo reduce di quel progetto abortito, ma se allora la Roma era una sorta di start up che non ha avuto il tempo, probabilmente, di esprimersi come avrebbe voluto, quella di oggi è una società più matura, con un allenatore giovane ma navigato e una rosa
costruita per stare in Champions. E invece è settima in classifica, superata ieri dal Parma (può farlo oggi anche il Torino, impegnato a Cagliari) e fuori da tutto, anche dall’Europa League. La colpa? A finire sotto processo è il solito Di Francesco, ma mentre i tifosi invocano il cambio in panchina lui è già proiettato alla prossima partita. Un gruppetto di ultras in trasferta ha provato a far sentire la propria voce in un faccia a faccia con Florenzi ed è intervenuto Monchi a calmare le acque. Non c’è tempo adesso per una rivoluzione e la società continua dritta sulla sua strada, condividendo le responsabilità del disastro. Il tecnico ha le sue, nonostante dimostri una personalità che inizialmente nascondeva sotto un velo di riservatezza non riesce a trasmetterla ai giocatori, che mancano di cattiveria e soprattutto dopo le soste per le nazionali (1 pareggio e 2 sconfitte) e a ridosso delle
sfide europee (1 successo, 2 segni X e 2 ko) la concentrazione crolla. Il problema è nella testa e da lì scaturiscono altri guai: quando si gioca di rincorsa capita che ci si faccia male più facilmente e succede pure che si perdono le trame di gioco, un gioco che non è fatto né dai
moduli né dal possesso palla (sterile), ma dalle idee, dalla brillantezza nel
metterle in pratica e dal collante che dovrebbe tenere insieme i reparti, corti
e impenetrabili. Questo non si può dire della difesa giallorossa, che ha incassato 16 gol, mentre sono 22 quelli segnati, la maggior parte (16) all’Olimpico. La Var non è d’aiuto: con Udine sono 27 le giornate senza rigori, non dev’essere un alibi ma è sicuramente un dato particolare. Sabato nel contrasto tra Samir e Pellegrini poteva almeno essere usata la tecnologia, ma questa è un’altra storia. La cosa più grave l’ha fatta la Roma, che stando alle parole del suo allenatore <non aveva voglia di vincere».
E’ mancato il guizzo dei leader che sanno prendere per mano i compagni, lo stesso Kolarov che nella passata stagione faceva la differenza adesso – complice il dito rotto – non ci riesce più. Nuovi e vecchi acquisti di Monchi non stanno dando garanzie, alcuni sono solo comparse come Marcano e Coric, altri sono discontinui, vedi Cristante, Schick e Kluìvert, Nzonzi ha ereditato un centrocampo orfano di Nainggolan e Strootman e si è ritrovato a fare il De Rossi senza avere il suo carattere, e l’unica certezza è Olsen. La differenza tra le due stagioni di Di Francesco e di 12 punti, 1 1 sono quelli persi con le cosiddette piccole. Troppi per chi vuole essere grande.