Alle 19,20 ha lasciato Trigoria. Non s’è fermato, eludendo la presenza dei cronisti. Atteggiamento comprensibile, vista l’amarezza provata. Anche perché al fischio finale di Çakir, per come era maturata l’eliminazione, Di Francesco ha sperato per qualche ora che ci fosse ancora un piccolo margine per restare e giocarsi le ultime chance contro l’Empoli. Speranza vana. Una volta arrivato a Roma, ha capito di essere giunto al capolinea. Quella frase buttata lì alla vigilia del match con il Porto – «Voglio essere supportato, non sopportato» – è la fotografia del suo stato d’animo negli ultimi mesi che ha vissuto come uno stillicidio. A tal punto che il post-gara, aspettando che la squadra salisse sul pullman, ha preferito viverlo da solo. Senza nessuno intorno.
Ieri invece la compagnia di Totti non lo ha lasciato un attimo. Francesco s’era speso per lui prima del match e non ha fatto mancare il suo supporto nemmeno all’aeroporto Francisco de Sa Carneiro, quando la protesta dei tifosi s’è rovesciata sui presenti. Forse, s’è sorpreso anche lui a vedere che gli ultras, tra i pochi a salvare, hanno salvato proprio la sua persona. Sbarcato a Fiumicino, Di Francesco ha tirato dritto, come fosse una normale giornata di lavoro. Convocato negli uffici del Fulvio Bernardini, s’è visto comunicare l’esonero dalla dirigenza. Ha comunque voluto dirigere l’ultimo allenamento, al termine del quale ha salutato tutta la rosa. Uno ad uno.
ALIBI E ERRORI Poi ha stretto la mano a tutti i dipendenti del centro sportivo e svuotato in parte l’armadietto. Probabilmente tornerà nei prossimi giorni. Ma come ex, non più come allenatore della Roma. Alla fine paga lui per tutti (del suo staff, rimane soltanto il preparatore Fanchini, ndc). Non una novità nel calcio. Ma piuttosto paradossale all’indomani della sfuriata anti-Var di Pallotta. Delle due l’una: se la mancata qualificazione, alla quale era aggrappata la conferma di Di Francesco, viene imputata all’arbitraggio di Çakir, stona l’esonero poche ore dopo. La verità, ormai di dominio pubblico, è un’altra. Eusebio era un ‘dead man walking’ già dal 23 settembre, giorno del ko di Bologna. L’ «I’m disgusted» dell’epoca di Pallotta, sommato ai reiterati «Ask Monchi» nei mesi successivi, rappresentavano la mannaia sull’operato di Eusebio. Era soltanto una questione di tempo. Più o meno come accaduto in passato con Garcia, già sfiduciato alla fine della stagione precedente l’esonero, quando aveva rilasciato dichiarazioni sulla competitività del club invise alla proprietà Usa. Di Francesco ha l’alibi di una doppia campagna acquisti che difficilmente poteva sposarsi con il suo credo tattico.
Per due estati ha chiesto un esterno destro al posto di Salah: il primo anno, dopo un lungo corteggiamento a Mahrez, è arrivata una seconda punta, Schick, e lui è stato bravo a far crescere Under che nei piani originari doveva rappresentare una semplice alternativa. Il secondo anno, dopo aver atteso invano all’aeroporto Malcom, Monchi ha virato su un mediano, Nzonzi. A dicembre, ha chiesto rinforzi: invano. Gli alibi, però, non possono nascondere gli errori. A partire dall’ecatombe muscolare. Con il tris Fazio-De Rossi–Pellegrini il numero dei ko è salito a 37 ai quali si sommano almeno un’altra decina a livello traumatico. Eusebio paga inoltre la difficoltà, nella seconda stagione, di regalare un’identità alla squadra. Arrivare a 36 formazioni diverse in altrettante gare è sinonimo di confusione. Subire 55 reti nelle tre competizioni (media 1,52 a partita), una condanna. Alternare moduli e optare per la difesa a tre in quella che aveva definito la partita della vita’, la pietra tombale.