Serviranno ancora diverse settimane, ma alla fine anche la Roma avrà finalmente un «vero» presidente. Niente più patron a distanza perché l’esperienza di Pallotta è stata da esempio a tutti. Per gestire una club di prima fascia in serie A, soprattutto se legato a una città nevrotica e poliedrica come Roma, serve una presenza fissa.
La società, la squadra, la gente, insomma l’intera piazza deve sentire che c’è un uomo che decide qui e non un riferimento dall’altra parte dell’oceano al quale arriva tutto in maniera, inevitabilmente, distorta e che ha tempi di reazione pachidermici.
Bisogna viverci all’ombra del Cupolone, respirare l’aria che tira e percepire al volo le scelte da fare e a volte andare anche contro la logica aziendale. Per fare questo Friedkin manderà a Roma il figlio Ryan, cui sarà affidato il compito di «esserci».
A Pallotta (che esce comunque a testa alta avendo acquistato il club che nove anni fa fu valutato poco più di 200 milioni e venduto a quasi cinque volte il valore iniziale) va riconosciuto di aver fatto il lavoro «sporco», di aver ristrutturato il club trasformandolo da gestione famigliare (e qui va ricordato il grande sacrificio di Franco Sensi, presidente dell’ultimo scudetto giallorosso) in una grande azienda internazionale: con o senza lo stadio. Perché per quanto riguarda il nuovo impianto giallorosso a Tor di Valle si sta giocando ancora tutta un’altra partita fatta di colpi di scena, clamorosi dietrofront e i soliti pantani capitolini tra politica e burocrazia.
Ma è chiaro che adesso cambia tutto, perché si passa da un presidente che era a capo di un gruppo di imprenditori (tra l’altro ultimamente premevano per uscire), a un proprietario unico in grado di decidere da solo: investimenti, strategie, tutto.
Un «one man show» al quale ora manca il tassello finale, quello che attendono i tifosi ormai da troppo tempo: vincere. Perché la bacheca giallorossa è rimasta a secco per troppo tempo. La strada intrapresa con Fonseca sembra quella giusta ma per andare a dama. A questa Roma serve il decisivo salto di qualità.
FONTE: Il Tempo – T. Carmellini