Si ricorda la prima volta che è andato allo stadio?
«Sì, fu in curva, con papà. La prima volta che andammo lui rimase sbalordito. Avrò avuto cinque anni, non di più. Mi ha raccontato che, diversamente dagli altri bambini, io mi misi seduto serio e composto e seguii tutta la partita senza dire mai una parola. Ero teso, concentrato. D’altra parte il calcio riempiva ogni momento della mia giornata. Facevo la collezione delle figurine Panini con grande dedizione. Le prime immagini che cercavo erano quelle della Roma. Anzi, la prima in assoluto, nella mia lista dei desideri, era quella di Francesco Totti. Facevo spendere un sacco di soldi ai miei per l’acquisto delle bustine finché non la trovavo. E non ci sono riuscito sempre».
Come seppe di avercela fatta? «Mi ricordo quando arrivò a casa la lettera che diceva che la Roma mi avrebbe preso. Per due o tre giorni non feci altro che guardarla e riguardarla, non mi sembrava vera. Può immaginarsi che cosa possa significare, per un bambino di nove anni malato di calcio, sapere che la tua squadra del cuore ti prende nel suo seno. Ero rapito da quel sogno che si realizzava».
La prima volta in sede come fu? «Mi portarono i miei, ovviamente. Dovevo firmare una carta, non un contratto. E firmai, con la mia calligrafia incerta di bambino. Avevo meno di dieci anni di vita. Fu lì che incontrai Bruno Conti, persona straordinaria, alla quale sono sempre restato legato. Da allora, fino a che non ho preso la patente, mio padre e mia madre mi hanno sempre accompagnato all’allenamento. Restavano in macchina ad aspettarmi, oppure prendevano un caffè con gli altri genitori. Noi ragazzini qui a Trigoria entravamo dal “terzo cancello”, quello delle giovanili. Non avrei mai immaginato, allora, di varcare il primo, quello grande, della prima squadra. Ci penso ogni mattina, ora, quando entro con la macchina. E ripenso sempre alla fatica e al sacrificio dei miei».
Totti era il suo idolo, ricorda quando lo ha incontrato la prima volta? «La prima volta che ci ho parlato è quando, con la Primavera, ci allenavamo con la prima squadra. Ma prima, quando lo incrociavo da ragazzino, ci parlavo tantissimo, dentro di me. Ma lui non lo sapeva. Era un dialogo a senso unico».
Ebbe una malattia seria… «Sì, era la conseguenza infettiva di una mononucleosi che avevo contratto nello spogliatoio. Malattia asintomatica che però produsse una serie di anomalie temporanee nel funzionamento del cuore. Degli scompensi, che il mio cuore compensava accelerando i battiti. Una persona normale può avere aritmie nella misura di quattro o cinquecento. Io, lo disse l’Holter, ne avevo ventimila. Ogni piccolo sforzo mi produceva un affanno terribile. Decisero un piccolo stop: la diagnosi era di sei mesi. Ma io ero talmente entrato in sintonia col mio corpo che ogni sera mi mettevo la mano sul cuore e misuravo la frequenza dei battiti irregolari. Riconoscevo le aritmie e ne contavo la frequenza. Mettevo il cronometro sul cellulare e, con la mano sul petto, cercavo di capire se andasse meglio. Avevo fretta di guarire. Dopo quattro mesi mi accorsi che le aritmie, prima diminuite, erano sparite. Chiamai i miei genitori e facemmo un controllo. L’esito fu positivo. E fu meraviglioso. Rientrai in campo dopo poco ma, alla prima partita, dovetti uscire per una frattura del quinto metatarso. Fermo altri venti giorni. Che mi sembrarono un’eternità, dopo i quattro mesi con la mano sul cuore».
Ebbe paura, in quei giorni? «No, non ho mai avuto paura che il mio sogno finisse. Sono caratterialmente fatto così. Penso che ci sia un significato nelle cose che mi accadono. Per questo non ho mai mollato. Mi ripetevo che mi stavo solo riposando, per tornare più forte, con più voglia. E alla fine è stato così».
Cosa significa essere romani nella Roma? «E’ una responsabilità importante. Ti senti in dovere di fare felice la tua gente. So quanto conti da come il calcio è vissuto dalla tua famiglia. Lo so da mio padre. Per fortuna per papà conto più io. Almeno un po’ di più della Roma…».
Che tipo di responsabilità è? «Quella che sento tanto è trasmettere ai miei compagni cosa vuol dire stare qui. Nulla mi fa più male della superficialità o del menefreghismo. Per fortuna nella mia squadra questi atteggiamenti non esistono. Tutti sanno quanto sia importante stare qui. E mettercela tutta. Si può vincere o perdere,ma devi uscire dal campo senza rimpianti».
Perché è così difficile vincere a Roma? «Vincere è difficile dappertutto. L’unica cosa che si può fare per vincere è lavorare, essere seri, professionali e creare un clima tanto forte e positivo qui dentro, tra noi, da resistere alle pressioni esterne. La Roma oggi sta crescendo anche in questo, si sono fatti passi in avanti importanti. Non so se vinceremo o no, ma oggi c’è un clima nuovo. Ripeto: per vincere bisogna solo lavorare. Sono convinto che un giocatore la domenica si esprima al livello che ha tenuto la settimana durante gli allenamenti».
Fonseca ha aiutato questo clima? «Quest’anno abbiamo trovato un allenatore che, secondo me, è tra i cinque migliori al mondo. Non solo dal punto di vista tecnico, anche per il carattere, per la positività che porta nel collettivo. Lui e il suo staff si prendono cura della squadra da tutti i punti di vista e fanno capire che qui non si scherza. Un gruppo così qui non c’è mai stato. Siamo amici, compatti, ci aiutiamo l’uno con l’altro. So che ci si attendono vittorie, da noi. Sono convinto che, continuando così, potremo toglierci molte soddisfazioni».
Quest’anno la Champions è un obiettivo realizzabile? «E’ il nostro obiettivo. Questo è stato un anno di grandi cambiamenti. Stiamo migliorando. Non dobbiamo porci dei limiti perché non ne abbiamo. La Champions è raggiungibile, se continuiamo così».
Un altro modo per arrivarci è vincere l’Europa League… «E’ un altro obiettivo che abbiamo sviluppato in questi mesi. Non si deve sottovalutarlo, la società ci ha chiesto di prenderla seriamente. Nel girone potevamo fare meglio. Dovevamo passare per primi. Vuol dire che quello che abbiamo sbagliato al primo turno non dobbiamo sbagliarlo ora».
Si sente più mezzala o regista? «Forse più mezzala. Il regista ha più compiti e responsabilità tattiche. A me piace vagare per il campo, toccare la palla tante volte, essere sempre nel vivo del gioco. Toccando tante volte il pallone prendi confidenza, ti senti più sicuro. Fonseca mi lascia libero. Mi chiede di cercare lo spazio, di non frenarmi. Mi dice sempre: “ Dove è lo spazio, tu vai”».
Fare un assist è come fare un gol? Lei ne fa molti e belli. «Ora è più semplice. I miei compagni hanno imparato a conoscermi: quando io ho il pallone “vanno” tutti, nessuno viene più incontro alla palla. Sono anche schemi studiati in allenamento. Molti mi prendono in giro ma per me fare un assist è come fare un gol. Ti arriva la palla, vedi uno spazio, una linea di passaggio e vai, secondo l’istinto… Sono frazioni di secondo. Istanti in cui devi decidere. E per me un vero campione è quello che prende le decisioni e che sa rischiare anche le giocate difficili. De Bruyne è così, non sbaglia mai una decisione. Se lui forza una giocata è perché è possibile».
Cosa ha imparato da Totti? «Tanto. Quando era in campo non si poteva non rubare con gli occhi da lui. E’ uno di quei giocatori che, da solo, vale il prezzo del biglietto. Dopo mi ha aiutato a capire tante cose qui dentro, ad avere gli atteggiamenti giusti. La sua esperienza calcistica e umana mi è stata molto utile. Mi ha confortato nei momenti difficili. A ventuno anni essere accolto da Totti mi è sembrato un film. Non entro nelle vicende specifiche ma, a livello umano, mi dispiace tantissimo venire qui e non vederlo tutte le mattine, come succedeva prima. E lo stesso vale per Daniele».
Sarà un giorno capitano della Roma? «E’ una cosa molto importante, significa trasmettere agli altri cosa significa giocare a Roma, nella Roma. Ora c’è Florenzi e nessuno sa farlo meglio di lui. Sa trasmettere il senso di questa identità e sa capire e tirare fuori dai compagni di squadra il meglio. Se questa squadra ora è in ripresa molto è merito suo, di Dzeko, di Kolarov e di tanti altri».
Resterà a vita nella Roma? «Io cerco sempre di essere sincero, tanto le parole vengono sempre giudicate, almeno si giudica il mio pensiero autentico. Che si possa paragonare la mia carriera futura a quella di Francesco o Daniele è per me solo un onore. In questo momento vorrei stare qui sempre ma certamente questa deve essere anche l’intenzione della società. Io sono un ragazzo molto ambizioso, che pretende molto da se stesso e dagli altri. Per me sarebbe perfetto restare qui per sempre. Sono orgoglioso della Roma, non lo dico formalmente, e penso che la società possa crescere ancora. Qualcuno dice che vincere uno scudetto a Roma è come vincerne dieci. Io voglio vincerne dieci, non uno. Dieci che valgono dieci».
Come vivete il cambio di proprietà in corso? «Noi sappiamo quello che leggiamo. Le nostre realtà sono lo spogliatoio, il campo, tutti i giorni. E in queste dimensioni sentiamo sempre la società presente. Il resto è un altro livello, che non dipende da noi. Restiamo in attesa, sapendo che, se anche le cose cambiano, la Roma resta la Roma».
FONTE: La Gazzetta dello Sport