Dici Bartelt e pensi a Roma-Fiorentina.
«Sa cosa mi dice la gente? “Grande Gustavo, complimenti per quella doppietta”. In realtà ho servito solo un paio di assist».
Solo? Un po’ ingeneroso… «Fu la mia miglior partita, ma nessuno se ne accorse».
Zeman cosa le disse? «Che non avevo giocato bene. Ma come è possibile? Entro a 10’ dalla fine e vinciamo 2-1 grazie a me, assurdo. Il bello è che un mese prima successe la stessa cosa: gioco in Coppa Italia contro il Chievo, guadagno un rigore e faccio gol. Per lui non andava bene. La verità è che non mi ha mai voluto, non gli piacevo».
Si è dato una spiegazione? «Avevo 23 anni, non capivo l’italiano e la Serie A. I suoi allenamenti erano un massacro: gradoni, corsa, giri di campo, e ancora gradoni, corsa, giri di campo. Tutti i giocatori arrivavano in Italia con il traduttore, il preparatore, qualcuno in appoggio, io non sapevo nemmeno che contratto avessi».
Quell’estate la voleva mezza Europa… «Avevo decine di richieste, ma ancora oggi non so da dove. Se ne occupava il mio agente, Jorge Cysterpiller, lo stesso di Maradona».
Com’era il rapporto con Franco Sensi? «All’inizio buono. Appena mi vide, per scherzo, disse di tagliarmi i capelli e coprirmi i tatuaggi. Non sapeva neanche lui perché non giocassi, ma non potevo dirgli che con Zeman non c’era rapporto. Con la testa che ho adesso di sicuro avrei fatto altre scelte».
E con Capello come andò? «In modo strano».
In che senso? «Quando tornai a Roma dopo le vacanze la società mi disse in modo chiaro che non mi voleva nessuno, né loro e né Capello. Io dico “Ok, ma vorrei provare a fargli cambiare idea durante la preparazione…”».
Sappiamo com’è finita… «All’inizio era iniziata bene in realtà. Prima amichevole in ritiro a Kapfenberg, Capello nota che sono seduto in un angolo e mi chiede cosa ci facessi lì. “Mister, so che non mi vuole”, gli rispondo. Lui replica che non è vero e mi reintegra in rosa. Sei spezzoni di partita fino a gennaio, poi non ho più visto il campo».
Anche qui, nessuna spiegazione? «La Roma mi ha abbandonato. Mi sono fatto due anni in prestito, poi c’è stato lo scandalo passaporti e sono stato squalificato. Dal 2001 al 2003 la società non mi ha pagato lo stipendio. Sono andato 5 volte a parlare con la Federcalcio, ma alla fine non ho visto un soldo. Non potevo neanche allenarmi a Trigoria”.
E i compagni che dicevano? «Nessuno capiva. Ricordo Aldair e Totti, spesso mi chiedevano come mai la Roma mi stesse facendo questo. Non volevano neanche darmi in prestito. Potevo andare in Germania, in Svizzera o tornare in Argentina, ma nulla. Forse ce l’avevano con il mio agente, non lo so, ma mi sono sentito isolato».
L’hanno bollata come bidone, si definisce tale? «Macché, non è stata colpa mia. I gol li ho sempre fatti. Forse non ho capito il calcio italiano, non mi sono adattato, non ho avuto un bel rapporto con Zeman, quello sì, ma non mi considero un bidone».
Alla fine si è tatuato lo stemma della Roma. «Certo, perché sono stati gli anni più belli della mia vita».
Ma come? Anche se non giocava mai? «Sempre, perché la gente mi ha voluto bene. Quando passeggiavo per strada mi fermavano tutti. Per me la Roma è un sentimento, uno stato d’animo, ancora oggi vedo le partite e mi informo su qualsiasi cosa. Il mio rimpianto più grande è quello di non aver giocato neanche un minuto nell’anno dello scudetto».
E oggi di cosa si occupa Bartelt? «Nel 2019 ho allenato l’Old Boys, la squadra in cui ho iniziato a giocare, poi porto avanti un’impresa di costruzioni da diverso tempo. Ho iniziato con piccoli appartamenti e ci siamo ingranditi. Mi diverto, mi piace, ma il mio sogno resta quello di allenare. Ho 47 anni e ancora voglia di sognare in questo sport».
E magari tornare a Roma… «Mia moglie e i miei figli l’hanno già rivista qualche volta, io manco da un po’. Chissà, magari un giorno ci giocherà mio figlio».
FONTE: La Gazzetta dello Sport – F. Pietrella