Uccidere il padre. Sportivamente, s’intende. Questa la missione dell’Inter, che va incontro al proprio destino edipico. All’Olimpico i nerazzurri, per non perdere il contatto con l’Olimpo del campionato, dovranno sconfiggere l’uomo che li ha educati alla vittoria, e che nella mitologia interista ancora occupa il piedistallo su cui i bambini collocano i genitori. Eppure quel padre si è mostrato fragile.
Ne sono prova le sue ultime uscite, timide rispetto ai giorni milanesi in cui tuonava invincibile contro tutto e tutti. A Mourinho i capelli bianchi non hanno tolto l’esplosività polemica contro gli arbitri, innescata dal cartellino che ha impedito a Pellegrini di scendere in campo contro la Lazio e deflagrata nell’epico “a Zaniolo consiglio di non rimanere a lungo in Serie A“. Ma, visto da Milano, il Vate di Setúbal nella sua versione romana non sembra più lui. Troppo diplomatico. Troppo prudente, al punto da evitare la conferenza stampa di vigilia più attesa della stagione.
A ridimensionare agli occhi del tifo interista la figura centrale della propria mitologia è anche la realtà del campo. L’uomo del Triplete, e prima dell’impensabile Champions col Porto, guida una squadra che ha capitolato a Bologna e Venezia, perdendo sei delle ultime 13 partite. Una formazione che oggi dovrà fare a meno del capitano, del giocatore più in forma, El Shaarawy, dell’unico vero centravanti, Abraham, e di Karsdorp, terzino destro difficile da rimpiazzare. La classica situazione da tragedia che avrebbe esaltato il Mourinho di un tempo, come gli interisti sanno bene. Vorrà dimostrare loro che, nonostante tutto, è ancora il suo tempo e nulla è cambiato.
“La Roma ha un grandissimo allenatore“, ha constatato Simone Inzaghi, che non lo ha mai affrontato. Da solo lo Special One ha vinto molto più dei quattro tecnici che si danno battaglia per conquistare la vetta della Serie A. Non solo Inzaghi, ma nemmeno Spalletti, Pioli e Gasperini – tutti passati dall’Inter dopo José – hanno mai vinto uno scudetto. Eppure si trovano a giocarselo, con buona pace dei decoratissimi generali della panchina che ammirano l’altrui battaglia da lontano.
Come il portoghese, anche Allegri e Sarri sono stati campioni d’Italia, ma oggi bivaccano fra la quinta e la nona posizione, in un campionato che ha infranto i sogni estivi di chi credeva nelle capacità taumaturgiche dei condottieri. Un risveglio brusco, che ha costretto ad aprire gli occhi su un’evidenza: in campo scendono i giocatori. Quelli di Napoli, Milan, Inter e Atalanta sono probabilmente più forti. Ma Mourinho non ci sta. Non può starci, per carattere e storia personale. Il suo passato dimostra che per vincere non serve la squadra migliore, basta lui.
FONTE: La Repubblica – F. Vanni