Fino a ieri il difetto maggiore della Roma era non avere un’identità forte. In una sera, contro un Cagliari a pezzi, ha trovato forse il volto su cui pensare di costruire il proprio futuro: la nuova Roma ha il passaporto portoghese e il carattere dell’ultimo arrivato. È bastata mezz’ora da giallorosso a Sergio Oliveira per prendersi il pallone sotto braccio mentre l’arbitro Maggioni decideva davanti a un monitor che il tocco con la mano di Dalbert meritasse il rigore. Palla da una parte, Cragno dall’altra.
E la certezza di aver trovato sul mercato almeno la soluzione a uno dei problemi: l’unico gol dal dischetto era arrivato nel derby perso, in mezzo a una striscia di occasioni sprecate iniziata a maggio con Dzeko e proseguita in questa stagione con tre errori su quattro tiri, compresi quelli parati da Szczesny a Veretout e Pellegrini, prima a Torino e poi pure all’Olimpico.
L’ultimo mattone di un’anima radicata come gli azulejos nelle chiese di Lisbona, consolidata da anni, con Fonseca prima, poi Pinto, Mourinho, il suo staff e l’agente, Mendes, sempre più influente nel mercato romanista. Nessuno in campo s’è stupito che il pallone l’avesse allora preso Oliveira, arrivato solo 96 ore fa: “Il primo rigorista era Pellegrini, ma ha avuto un problema nel riscaldamento“, ha raccontato lui a fine partita. “Avevamo deciso che io sarei stato la seconda opzione, ho preso la palla ed è andata bene“.
Magari per caratteristiche non è il regista che sognava e continua a sognare Mourinho, ma nei 90 minuti che ha chiuso esausto — eredità dello spazio risicato che gli era concesso al Porto — ha dimostrato di avere tutto ciò che alla Roma è mancato finora: idee chiarissime, il carisma per farsi dar la palla, per giocarla guardando la porta avversaria e non la propria, vizio invece molto diffuso tra i suoi nuovi compagni. Troppo spaventati di rischiare, troppo imprecisi quando lo fanno: gli errori di Abraham, di Zaniolo, di Felix nell’area del Cagliari hanno lasciato appesa una partita senza storia, ma avarissima di gol.
FONTE: La Repubblica – M. Pinci